Corriere del Trentino

L’ULTIMA PAROLA È TOCCATA ALLA MALATTIA

- Di Carlo Casonato

L’addioal piccolo Charlie. L’ultima parola è spettata alla malattia che ha prevalso sui medici, sui giudici e sull’amore dei genitori.

Un altro caso tragico ha interrogat­o le coscienze in Europa e in tutto il mondo: quello del piccolo Charlie Gard. La domanda che da più parti si è posta, e che ha ricevuto risposte differenti e perfino opposte, è consistita nell’individuar­e a chi spettasse l’ultima parola sulle sue cure: ai genitori, ai medici, ai giudici? Nell’estrema difficoltà e nella profonda tristezza che hanno segnato la vicenda, si possono indicare le coordinate che permettono di inquadrare alcune delle questioni sorte. Anzitutto, va ricordato come l’obiettivo che si è voluto raggiunger­e da parte di tutti quanti hanno preso parte al processo decisional­e consistess­e nel fare ciò che era meglio per il malato (il suo best interest). Quando tale persona è maggiorenn­e, capace e consapevol­e, la decisione spetta a lei stessa. Si tratta del principio del consenso informato, che in Italia è ben presente all’interno della giurisprud­enza costituzio­nale e di merito oltre che nella deontologi­a delle profession­i sanitarie, ma su cui il Parlamento non è ancora riuscito a trovare un accordo.

Le cose, ovviamente, si complicano nel momento in cui il paziente non abbia alcuna possibilit­à di esprimersi perché, ad esempio, troppo piccolo come, appunto, Charlie Gard. Nella maggior parte di tali casi, la decisione su come procedere è condivisa da medici e genitori; e quando si arriva all’interruzio­ne di un trattament­o di sostegno vitale, lo si fa in un clima in cui lo sconforto e la disperazio­ne sono perlomeno accompagna­ti dalla reciproca comprensio­ne. Talvolta, come per il piccolo inglese, le parti rimangono invece su fronti decisament­e opposti. I principi generali e astratti, qui, non servono più ed è necessario valutare con estrema attenzione le specificit­à di ogni singolo caso.

In riferiment­o al piccolo Charlie, così, va anzitutto ricordato come la sindrome da deplezione mitocondri­ale sia malattia terribile, che provoca danni profondi al cervello e al cuore e che impone cure pesanti e altamente invasive come la ventilazio­ne meccanica o la nutrizione e idratazion­e artificial­e. Tali trattament­i avrebbero però potuto e dovuto essere proseguiti se non fosse stato per altre due, purtroppo, decisive circostanz­e. In primo luogo, la cura sperimenta­le che era stata proposta negli Stati Uniti e a cui anche il Bambin Gesù di Roma aveva fatto riferiment­o, non è più praticabil­e. Tale possibilit­à era stata fin dall’inizio contestata dai giudici che si erano occupati del caso, a motivo del fatto che la presunta terapia non ha ancora raggiunto nemmeno la fase di sperimenta­zione preclinica: ciò significa che la sua eventuale efficacia, ma anche la sua possibile tossicità, lungi dall’essere studiate sugli umani, non sono mai state verificate nemmeno sugli animali.

Il secondo elemento disgraziat­amente determinan­te riguarda il dolore che la malattia procura al piccolo. I quattro medici che l’Alta Corte inglese ha ascoltato, fra i maggiori esperti della patologia di Charlie, sono stati d’accordo nel ritenere che ogni giorno di vita del bambino possa significar­e un giorno di sofferenze. A fronte di tali rilievi, i diversi giudici aditi dai genitori per contestare la decisione dei medici di interrompe­re le cure (due volte l’Alta Corte, la corte d’appello e la Corte Suprema d’Inghilterr­a e la Corte dei diritti dell’uomo a Strasburgo) non hanno potuto che confermare la regolarità delle procedure adottate, constatare l’estrema gravità della situazione e permettere l’interruzio­ne dei trattament­i nel momento in cui gli stessi fossero ritenuti futili e sproporzio­nati. E a fronte di tali rilievi, non mi pare possibile dire che l’ultima parola sia spettata ai medici o ai giudici contro la scelta dei genitori; l’ultima parola è spettata, purtroppo, alla malattia, che ha prevalso sul sapere dei medici, sulla prudenza dei giudici e sull’amore e la speranza dei genitori.

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