L’ULTIMA PAROLA È TOCCATA ALLA MALATTIA
L’addioal piccolo Charlie. L’ultima parola è spettata alla malattia che ha prevalso sui medici, sui giudici e sull’amore dei genitori.
Un altro caso tragico ha interrogato le coscienze in Europa e in tutto il mondo: quello del piccolo Charlie Gard. La domanda che da più parti si è posta, e che ha ricevuto risposte differenti e perfino opposte, è consistita nell’individuare a chi spettasse l’ultima parola sulle sue cure: ai genitori, ai medici, ai giudici? Nell’estrema difficoltà e nella profonda tristezza che hanno segnato la vicenda, si possono indicare le coordinate che permettono di inquadrare alcune delle questioni sorte. Anzitutto, va ricordato come l’obiettivo che si è voluto raggiungere da parte di tutti quanti hanno preso parte al processo decisionale consistesse nel fare ciò che era meglio per il malato (il suo best interest). Quando tale persona è maggiorenne, capace e consapevole, la decisione spetta a lei stessa. Si tratta del principio del consenso informato, che in Italia è ben presente all’interno della giurisprudenza costituzionale e di merito oltre che nella deontologia delle professioni sanitarie, ma su cui il Parlamento non è ancora riuscito a trovare un accordo.
Le cose, ovviamente, si complicano nel momento in cui il paziente non abbia alcuna possibilità di esprimersi perché, ad esempio, troppo piccolo come, appunto, Charlie Gard. Nella maggior parte di tali casi, la decisione su come procedere è condivisa da medici e genitori; e quando si arriva all’interruzione di un trattamento di sostegno vitale, lo si fa in un clima in cui lo sconforto e la disperazione sono perlomeno accompagnati dalla reciproca comprensione. Talvolta, come per il piccolo inglese, le parti rimangono invece su fronti decisamente opposti. I principi generali e astratti, qui, non servono più ed è necessario valutare con estrema attenzione le specificità di ogni singolo caso.
In riferimento al piccolo Charlie, così, va anzitutto ricordato come la sindrome da deplezione mitocondriale sia malattia terribile, che provoca danni profondi al cervello e al cuore e che impone cure pesanti e altamente invasive come la ventilazione meccanica o la nutrizione e idratazione artificiale. Tali trattamenti avrebbero però potuto e dovuto essere proseguiti se non fosse stato per altre due, purtroppo, decisive circostanze. In primo luogo, la cura sperimentale che era stata proposta negli Stati Uniti e a cui anche il Bambin Gesù di Roma aveva fatto riferimento, non è più praticabile. Tale possibilità era stata fin dall’inizio contestata dai giudici che si erano occupati del caso, a motivo del fatto che la presunta terapia non ha ancora raggiunto nemmeno la fase di sperimentazione preclinica: ciò significa che la sua eventuale efficacia, ma anche la sua possibile tossicità, lungi dall’essere studiate sugli umani, non sono mai state verificate nemmeno sugli animali.
Il secondo elemento disgraziatamente determinante riguarda il dolore che la malattia procura al piccolo. I quattro medici che l’Alta Corte inglese ha ascoltato, fra i maggiori esperti della patologia di Charlie, sono stati d’accordo nel ritenere che ogni giorno di vita del bambino possa significare un giorno di sofferenze. A fronte di tali rilievi, i diversi giudici aditi dai genitori per contestare la decisione dei medici di interrompere le cure (due volte l’Alta Corte, la corte d’appello e la Corte Suprema d’Inghilterra e la Corte dei diritti dell’uomo a Strasburgo) non hanno potuto che confermare la regolarità delle procedure adottate, constatare l’estrema gravità della situazione e permettere l’interruzione dei trattamenti nel momento in cui gli stessi fossero ritenuti futili e sproporzionati. E a fronte di tali rilievi, non mi pare possibile dire che l’ultima parola sia spettata ai medici o ai giudici contro la scelta dei genitori; l’ultima parola è spettata, purtroppo, alla malattia, che ha prevalso sul sapere dei medici, sulla prudenza dei giudici e sull’amore e la speranza dei genitori.
Molte domande Vicenda complicata che ha scosso il mondo