LO SPAZIO DEL POSSIBILE
Il Corriere del Trentino si è occupato spesso degli spazi urbani di Trento, delle contraddizioni che li attraversano e che in essi si situano. Anche il dibattito sorprendentemente agitato quanto pressoché inutile sul Daspo urbano ne è un esempio. Ne sono un esempio le acute osservazioni fatte in più occasioni da Simone Casalini sulla presenza, così poco riconosciuta e così invece tanto significativa, di un pensiero che ha cercato di riflettere sulla metropoli nel quadro dell’immenso processo del postcolonialismo. Perché di questo si tratta. Trento comincia a percepirsi come metropoli. Homi Bhabha, uno degli autori citati da Casalini, afferma che «la città è lo spazio nel quale identità emergenti e nuovi movimenti sociali del popolo sono realizzati: è lì che ai nostri tempi la confusione del vivere è sperimentata nel modo più intenso». Nella città vivono mille voci, anche voci paradossalmente mute. È nella metropoli infatti che i popoli silenti o silenziati dalla violenza anche culturale del colonialismo prendono parola. Ma nella città non ci sono soltanto mille voci, ci sono anche mille tempi. A Roma si è inaugurata qualche mese fa alla Gnam una mostra intitolata «The time is out of joint»: il tempo è uscito dai cardini. Non c’è più un tempo, ma molti tempi.
Tali riflessioni mi riportano a un frammento di un grande poeta e pensatore vissuto tra Settecento e Ottocento, Novalis, il quale afferma di sentirsi ovunque a casa propria. Ovunque: vale a dire dappertutto e in nessun luogo. Eppure l’uomo ha continuato a costruire case. E ha continuato ad allontanarsi da esse, finché è arrivato a mettere insieme, in una figura mostruosa, la casa e il dappertutto. Ha costruito le grandi città, le metropoli, una folla di case, che non hanno però confine, che non hanno nessun orizzonte certo, in cui ci si può muovere come nel più arrischiato e avventuroso dei viaggi. Qui abitano mille voci, compresa quella abissale del silenzio, come aveva capito Balzac. La metropoli sembra contenere le frontiere sconfinate dell’infernale. Questo inferno, l’inferno metropolitano, contiene orrore e bellezza, pace e angoscia, appelli e silenzi. È lo spazio del possibile. È lo spazio dunque non tanto dell’architetto geniale che viene e lascia la sua impronta digitale. È lo spazio della costruzione politica. È la politica che dovrebbe agire sul possibile. Per farlo dovrebbe riconoscersi come soggetto dotato di idee, strategia, volontà, capacità di futuro. Che è quanto oggi disastrosamente manca.