Corriere del Trentino

«Tre mesi in bici e un solo amico, il cielo stellato»

Il racconto del viaggio estremo di de Bertolini. «Ho rimosso tanti luoghi comuni»

- di Alessandro de Bertolini

Novanta giorni, 10.300 chilometri percorsi da San Francisco all’Oceano Artico. È il lungo viaggio in bicicletta di Alessandro de Bertolini, firma del Corriere del Trentino, che ha valicato Stati, frontiere e sensazioni «sotto il cielo stellato, l’amico più fidato». Ecco il suo racconto.

Un viaggio dell’anima e della vita, novanta giorni on the road da San Francisco all’Oceano Artico, oltre diecimila chilometri percorsi. È l’impresa umana e intellettu­ale di Alessandro de Bertolini, firma storica del Corriere del Trentino, che ha attraversa­to un pezzo di America — sostenuto nel progetto da Montura, Saidea e Realweb — nel silenzio della natura e nel calore dell’abbraccio umano. Quello che segue è il suo racconto del viaggio.

Una lunga notte di San Lorenzo…come se i fuochi d’artificio non finissero mai. Così ho vissuto questi tre mesi in viaggio con la tenda e il sacco a pelo, da San Francisco all’Oceano Artico, inseguendo un sogno nella maniera più facile che si possa immaginare: pedalando in bicicletta. Se ho trovato quello che cercavo? Non ho trovato l’altra faccia della luna. Ma la caccia al tesoro è stata la parte più emozionant­e del percorso. Un discorso in sospeso.

Come quando cammini sulla cresta di una montagna, pesando ogni passo tra il versante di destra e di sinistra, ho vissuto questo tempo a metà strada tra le paure e il buon vento. Il vento buono ha vinto sempre la partita. Alcune paure mi hanno rincorso più di altre. Senza mai raggiunger­mi davvero. Andare in bicicletta è la cosa più facile del mondo e non c’è nulla difficile nel partire per tre mesi e attraversa­re il continente nordameric­ano.

Ricordo alcune righe di Fridtjof Nansen. Dopo averle lette non le ho mai dimenticat­e. «Quando abbiamo imparato a conoscerlo — scriveva l’esplorator­e norvegese, protagonis­ta della prima traversata della Groenlandi­a nel 1888 — il cielo stellato è l’amico più fidato che abbiamo nella nostra vita; è sempre lì, ci trasmette un senso di pace, ci ricorda sempre che la nostra irrequiete­zza, i nostri dubbi, i nostri dolori, sono cose di poco conto, passeggere. L’universo non verrà mai meno. Quando tiriamo le somme, scopriamo che le nostre opinioni, le nostre battaglie, le nostre passioni non sono poi così importanti». Ed è vero. Ho cambiato idea su tante cose in questo viaggio per poi cambiarla ancora e nuovamente. Il silenzio e i grandi spazi hanno la capacità di metterti a nudo. In mezzo alla Death Valley, quando è notte fonda e la luna è piena, non inizi a parlare da solo ma cominci a pensare ad alta voce.

Foucault a Zabriskie Point

La Death Valley è stata tra le prime mete. Battuta dai venti, silenziosa, polverosa. Per i suoi incanti, i colori, l’isolamento e per la sua nomea, esercita la forza di una calamita rovente su chi vi è di passaggio. Caldo secco, tuttavia, più facile da sopportare. Il Parco naturale di Death Valley si estende in California a un passo dal confine col Nevada per una superficie di 13.000 chilometri quadrati. Il doppio del Trentino. Nella parte più orientale si trova la maggiore area di depression­e degli Stati Uniti — 80 metri sotto il livello del mare — nella località di Bad Water nei pressi di Zabriskie Point. Per Michel Foucault fu un’esperienza psichedeli­ca. Era il 1975 quando il filosofo francese, tra i pensatori più discussi del secolo scorso, esponente di primo piano del pensiero post-struttural­ista, fu invitato dalle università di Irvine e Claremont in California. Simone Wade, suo assistente, texano di origine, gli propose un viaggio nella Death Valley. Qui, il professore e il suo allievo provarono l’Lsd. «Siamo saliti allo Zabriskie Point — racconta Wade in un’intervista pubblicata lo scorso 10 settembre sulla rivista di cultura online Boom California — dove restammo per dieci ore. Volevo vedere come una delle menti più grandi della storia sarebbe stata colpita da un’esperienza che non aveva mai avuto prima». Alcuni anni dopo Foucault raccontò dello Zabriskie point come del luogo più bello e intimo di tutta la sua vita. Sistemati sulla bicicletta, avevo 10 litri misti di acqua e sali mentre percorrevo la Death Valley tra Bad Water e Zabriskie Point, il 12 luglio scorso. Mi trovavo nella strada della Valle della morte nelle vicinanze di Artist’s palette, un’area che deve il suo nome alle intense colorazion­i delle dune di sabbia che caratteriz­zano la zona. Per evitare il caldo, avevo cominciato a pedalare alle 3 del mattino in una notte di luna piena. Mentre smontavo la tenda il vento si calmava, mutava leggerment­e la direzione, soffiava quasi dalla parte giusta. Quando si interruppe, nel silenzio profondo stetti immobile per un tempo che non saprei giudicare. Poi via. Tre ore dopo, le luci dell’alba levarono il sipario sulla Death Valley, sulle Panamit Range e sull’Amargosa Range.

«It’s my home for three months»

«You have a lot of stuff, where you had it?». Sono giunto nella Death Valley alla fine della seconda settimana di viaggio. Ero partito da San Francisco il 28 maggio. A quanti mi domandavan­o da dove provenivo e quali fossero i miei progetti con tanta «roba» sulla bicicletta, circa 60 chili, rispondevo indicando la mia bici: «It’s my home for three months».

Partenza da San Francisco, destinazio­ne Oceano Artico. Durata prevista 90 giorni. In mezzo c’erano la California, il Nevada, l’Arizona, lo Utah, il Colorado, il Wyoming, il Montana, l’Alberta, la British Colombia, lo Yukon e l’Alaska seguendo dapprima il profilo della Sierra Nevada, poi, soprattutt­o, le Montagne Rocciose fino alle Alaska Range e alle Brooks Range.

Circa 10.500 chilometri. Un pezzetto di mondo. La prima lezione da imparare è che non si può vedere tutto. Quando riesci a capirlo hai fatto il primo passo avanti, accettando il fatto che il tuo viaggio deve necessaria­mente aprirsi con un inizio e concluders­i con una fine. Non può continuare all’infinito in uno spazio indefinito. Farsene una ragione è quasi una violenza. Ma è un atto inevitabil­e di attribuzio­ne di senso.

Lungo la strada un bombardame­nto ininterrot­to di stimoli e aspettativ­e: i parchi naturali di Yosemiti e di Sequoia, il Red rock canyon, Las Vegas, la Route 66, il Grand canyon e la Monument valley, la Riserva indiana dei Navajo, l’Arches national park, il Colorado river e la Castle valley, le ghost town di Cisco e Ballarat, il Parco nazionale delle Rockies, i passi di montagna con Vail e la salita al Mount Evans sulla strada asfaltata più alta del nord America, lo Yellostone, i bisonti, la Riserva indiana dei Piedi neri, i parchi di Waterton lakes, Banff, Jasper e il Denali, una trentina di orsi, la Cassiar highway, l’Alaska highway e la Dalton highway fino all’Artic national park and preserve verso il 70° parallelo, dove finisce il continente, oltre il Circolo polare, nel North Slope.

Il pranzo di dieci dollari

Lentamente, ho imparato a rimuovere molti dei luoghi comuni che nutrivo sull’America e sugli americani. Quanto meno sai di un luogo tanto più credi di saperne. Quanto meno conosci l’altro tanto più sei convinto di conoscerlo. Poi ti confronti con le differenze e ricordi che, per dirla con Paul Watzlawick — filosofo, linguista e sociologo austriaco — «la (nostra) patria è una realtà, ma certamente non la realtà» e che «solo trovandosi all’estero la propria realtà diventa effettivam­ente comprensib­ile». L’America è grande. Ho avuto la fortuna di conoscere la parte migliore. Non senza superficia­lità ho deciso di fermarmi a quella.

Avevo speso 10 dollari, il costo di una colazione propriamen­te americana a base di bacon e scrambled eggs (uova strapazzat­e) in un fast food vicino a una gas station, come ce ne sono tanti sulle highway del Nevada. Quando mi alzo per il conto mi dicono che qualcuno ci ha pensato al posto mio. La persona seduta all’angolo ha pagato per me. Non ho mai saputo chi sia stato. Se ne è andato senza presentars­i, nemmeno una stretta di mano. Due mesi dopo, nelle Brooks Range, lungo la Dalton highway rivivo la stessa situazione sulle strade dell’Alaska: almeno 20 dollari. Anche in questo caso non ho potuto dare un volto a tanta cortesia. Per la seconda volta, dopo l’esperienza in Nevada, rimasi senza parole mentre nel locale «old style» per camionisti andava un pezzo dei Creedence Clearwater Revival in un’atmosfera in discesa da fine stagione. I vetri appannati ai quattro angoli, le schiene strette avvolte nei cappotti, guardai fuori dalla finestra le poche persone che popolavano la scena mentre dal cielo dell’Alaska aveva appena cominciato a ne-

vischiare. Era il 23 di agosto. La stazione di servizio successiva si trovava 246 miglia più avanti, nell’estremo nord Paese, sulla costa dell’Oceano Artico.

Ma non è stato solo questo. Nel superarmi, durante il viaggio, quante volte gli automobili­sti hanno accostato per chiedermi se fosse tutto ok? Mentre mettevo la tendina in un’area di campeggio libero accanto a una famiglia americana, che sostava per la notte in automobile, un pomeriggio di giugno vengo invitato alla loro tavola. Dalla foresta, verso le cime più alte degli abeti rischiarat­e dalle ultime luci del tramonto, si alzava un filo di fumo dal barbecue che stavano arrangiand­o per la cena. Mangiai carne di manzo e verdure alla griglia quella sera. Da parte mia ricambiai con un caffè italiano. Stupiti che io avessi la moca e per il fatto che me la portassi appresso in bicicletta, mi chiesero perché. «It smells like home», risposi a Caitlin. Profuma di casa.

Monodose, arancione, italiana, sapevo sempre dove tenevo la moca da caffè nelle mie borse. Caitlin e suo marito erano una coppia di california­ni che mi «adottò» per quella sera in un free-camp sulla Wawona Route, tra lo Yosemiti e il Parco di Sequoia, nella foresta degli «alberi giganti». Lui compiva trent’anni. Lei lo festeggiav­a insieme ai genitori in un angolo di bosco della Sierra Nevada, a qualche ora di automobile dalla Bay Area.

Woh-woh’nau

Gli indiani della California avevano imparato a conoscere le Sequoie. A queste conifere attribuiva­no una rilevanza sacra. Pensavano che fossero protette da uno spirito guardiano che volava nei boschi di notte con le sembianze di un gufo. Per questo le chiamavano «Wawona», dal verso del gufo «woh-woh’nau». Avevo letto questa storia in Un mondo perduto, il libro di Walter Bonatti. Bello sentirsela raccontare anche dai locali, quando entrai in un saloon e domandai all’oste il significat­o del nome della strada, la Wawona Route. Si trova qui l’albero più grande del mondo e uno dei più vecchi. Una sequoia di 2.400 anni che sfiora i 90 metri altezza. Con scarsa consideraz­ione per l’identità e la tradizione dei nativi, gli americani lo hanno chiamato Generale Sherman, in onore di William Tecumseh Sherman, generale delle forze armate americane che, dopo la Guerra di secessione, fu incaricato della repression­e degli indiani dell’Ovest.

I Piedi neri non amano i bianchi

Dopo la California ho trovato i grandi spazi. L’America di frontiera, il vento dell’ovest, gli odori dell’ovest, la gente dell’ovest. Un mondo di rappresent­azioni ambientali e mentali, oggettive e simboliche, che per secoli ha incarnato il West. Con la ruggine sulla pelle, il «vecchio West» è ancora oggi la prova provante, fisica e culturale, di ciò che stava al di là delle Montagne Rocciose, in un tempo in cui le Rockies erano confine geografico e politico per il colono europeo che giungeva dall’est. Pedalando verso la cittadina di Browning, nella Riserva indiana dei Blackfeet, la gente del posto mi ha sconsiglia­to di dormire con la tenda nei pressi del villaggio. «I Piedi neri non amano vedere i bianchi», mi dicevano. Ho fatto buon uso della raccomanda­zione, ma sulla strada per Browning ho ascoltato più volte «Fiume Sand Creek», il brano in cui Fabrizio De Andrè racconta il massacro di una tribù di indiani del Colorado a ope- ra dell’esercito americano, per avere un punto di vista in più sulle circostanz­e.

Verso il Grand canyon e oltre

Diretto verso il Grand canyon, nel cuore dell’ovest ho così incontrato alcuni tratti della «old Route 66», là dove le bretelle stradali di più recente costruzion­e l’hanno bypassata e ci si può godere la strada senza traffico. Carica di storia e di echi letterari, lungo la 66 «le bettole: Al & Susy’s Place, Carl’s Lunch, Joe & Minnie, Will’s Eats. Baracche di legno e lamiera. Due pompe di benzina nello spiazzo». Da quando ci passò John Steinbeck, anni ’30 del secolo scorso, la strada non è poi così cambiata da come la raccontò lo scrittore americano, autore di Furore, il suo capolavoro. Le «bettole», che accoglieva­no un tempo gli emigranti nel loro viaggio verso «la terra del latte e del miele» (la California), oggi vendono souvenir per i turisti, con qualche rivisitazi­one western un po’ John Wayne un po’ Clint Eastwood. Ma la «vecchia strada» e le sue atmosfere han conservato l’anima.

Al Gran canyon sono arrivato di notte, dal lato sud, quasi non me ne sono accorto. Ho atteso l’alba del giorno successivo per ammirare uno dei soggetti più fotografat­i degli Stati Uniti dal belvedere Powell, tra i numerosi view-point che si affacciano sulla voragine. Geologo esplorator­e e militare statuniten­se, quasi 150 anni fa Walter Powell fu al timone della prima spedizione scientific­a verso il Grand canyon. Era il 1869 quando si imbarcò su un battello nel fiume Colorado. La spedizione durò 99 giorni e permise la realizzazi­one della prima mappa geografica dell’area.

Attraverso le grandi praterie dell’Arizona si giunge dal Grand canyon alla Monument valley passando il confine con lo Utah lungo le highway 160 e 163. In una combinazio­ne tra paesaggi orizzontal­i e paesaggi verticali come non avevo visto mai, ho trascorso alcuni giorni sui pedali nel Colorado plateau, l’enorme pianoro di origine alluvional­e dove si trovano i «testimoni di erosione». Così i naturalist­i chiamano le famose guglie rosse della Monument, prodotto di milioni di anni di erosione, protagonis­te del cinema moderno e in un certo senso «vittime» del cineturism­o.

La neve bacia l’Artico

Dopo lo Utah ci sono stati il Colorado, le grandi salite e l’incontro con le Rockies. All’altezza del monte Evans, raggiunti i 4.300 metri della vetta, dove termina la strada, ho preso la direzione nord e non l’ho più lasciata. Seguendo le montagne ho continuato fino in Alaska per 6.000 chilometri con il pensiero in testa di raggiunger­e l’oceano artico, il Circolo polare e le prime nevicate. La neve è una spinta motivazion­ale straordina­ria e bagna molto meno della pioggia, quando per giorni interi non puoi trovare un tetto o un albero sotto cui ripararti.

Sulla strada verso il grande nord le praterie sconfinate del Wyoming, il silenzio del Montana, i ghiacciai dell’Alberta e della British Colombia, la solitudine dello Yukon (0,06 abitanti per chilometri quadrato), le montagne dell’Alaska, i colori dell’autunno e i colori dell’inverno. Le Brooks Range mi hanno toccato il cuore. Il parco del Denali mi ha rapito l’anima. La tentazione di non ritornare ha rischiato di farmi perdere la bussola. A casa mi aspettava Silvia, dove abitiamo, a passo Mendola. È stata lei il filo del mio aquilone e il bello del ritorno, insieme con la mia famiglia.

Cosa è rimasto dopo tanta strada? Tanta fortuna. E la sensazione più bella di aver pescato il jolly dal mazzo. Non la donna di cuori. Non l’asso di denari. La voglia di ripartire è solo ritardata.

Artist’s palette Per evitare il caldo avevo cominciato a pedalare alle 3 in una notte di luna piena. Tre ore dopo le luci dell’alba alzarono il sipario su Death Valley

Estremo nord Dal monte Evans ho preso la direzione nord, per 6.000 chilometri fino all’Alaska. La neve è una spinta motivazion­ale straordina­ria

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(Foto Adb) Monument valley Una parte del percorso che si snodava tra Arizona e Utah
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Death Valley De Bertolini di fronte alla segnaletic­a di ingresso al parco nazionale della Death Valley
 ??  ?? Colori Il Parco nazionale di Yellowston­e nel Wyoming
Colori Il Parco nazionale di Yellowston­e nel Wyoming
 ??  ?? Plantigrad­o Un orso nero nella British Columbia
Plantigrad­o Un orso nero nella British Columbia
 ??  ?? Classico Il suggestivo Grand canyon
Classico Il suggestivo Grand canyon
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Profondo Il monte Denali in Alaska

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