Brevini: l’equivoco tra conoscenza e informazioni
Il libro Franco Brevini ha appena pubblicato il suo volume Docente universitario e firma del «Corriere della Sera» conduce i lettori alla scoperta del «sentimento dell’altro»
L’esperienza del viaggio, che i mezzi di trasporto della modernità hanno totalmente riconfigurato, ha fatto venire meno il rapporto obbligato tra la lontananza geografica e la percezione psicologica che ne abbiamo. In questo contesto, la lontananza diventa «una specie di sineddoche della contemporaneità»: attraverso essa diventano infatti visibili alcune linee significative del tutto in cui ci muoviamo.
È attraverso queste immagini guida che entriamo nello sfaccettato mondo di Così vicini, così lontani. Il sentimento dell’altro, fra viaggi, social, tecnologie e migrazioni, il nuovo lavoro di Franco Brevini, appena uscito per le edizioni Baldini&Castoldi. Di Brevini, professore di letteratura italiana all’Università di Bergamo e firma del Corriere della
Sera, ricordiamo, tra l’altro, la partecipazione a Trento Film
Festival 2016 con il suo Alfabeto verticale. La montagna e l’alpinismo in dieci parole.
E alla «metafora della scalata» Brevini ricorre anche per spiegare come Così vicini, così
lontani non intenda essere uno studio disciplinare ma di percorso, in cui il tracciato «si disegnava mentre avanzavo. Anche quando si scala una parete dolomitica, la si affronta seguendo le indicazioni che la montagna spesso ci offre» osserva in tal senso.
Professor Brevini, che cosa rappresenta la lontananza nel suo studio?
«Potremmo definirla come un sorta di reagente che mi è servito per mettere in luce alcune dinamiche del contemporaneo. In realtà, la polarizzazione vicino-lontano è una delle più antiche, legata all’antropologia di Homo sapiens, ma se ne ripercorriamo le vicende alla luce di quanto successo negli ultimi due secoli, ci rendiamo conto dei tanti parametri venuti meno, e possiamo cogliere alcune contraddizioni della nostra epoca».
Nel libro guarda all’esperienza della lontananza in ambiti molto diversi. Perché ha scelto una prospettiva di tipo comparato?
«Ho provato a mettere a prova la tenuta delle categorie lontano-vicino in diversi settori: antropologico, geografico, sociale, tecnologico, ma anche le questioni legate all’immigrazione, per concludere con il tema dei sentimenti in cui lontananza e vicinanza fanno parte integrante delle dinamiche dello stare insieme. Una prospettiva multidisciplinare che rende il mio libro poco “italiano” e più americano, nel senso che in America le analisi trasversali sono molto più diffuse».
Cosa discende dal sovvertimento delle tradizionali coordinate spazio-temporali procurato dalla tecnologia?
«Da una parte la velocità dei mezzi ha sovvertito le idee di lontano e di vicino, ma questo sovvertimento in qualche modo implicato dalla globalizzazione ci porta a essere un po’ più uguali, si avverte cioè un minor senso della distanza in quanto alterità. La tecnologia, inoltre, ci ha confezionato un’impazienza di cui l’indizio più evidente è il fastidio con cui guardiamo la clessidra che gira sul computer. C’è poi un’altra impazienza con ripercussioni più pericolose, quella portata dalle cosiddette interfacce user-friendly, secondo le quali non sarebbe più necessario un apprendimento diluito nel tempo».
A questo proposito, nel libro dedica un capitolo al tema: «Dov’è la Sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?»
«Il punto è che cultura non significa moltiplicare le informazioni. Conoscere implica uno sforzo, mentre oggi dalla rete si genera un equivoco tra informazioni e conoscenza. Quest’ultima deriva da un processo di metabolizzazione, dal far cioè diventare nostro ciò che fino a prima restava all’esterno di noi. Una fatica che oggi sembra desueta, ma in realtà se non abbiamo le idee chiare su cosa cercare perché non conosciamo la complessità del problema, internet è completamente muto».
Perché in questa alterazione del quadro spazio-temporale procurata dalla velocità è «il recupero del corpo a continuare a garantire la sperimentazione della lontananza»?
«È una riflessione in cui mi sono imbattuto ogni volta in cui lo sviluppo della ricerca mi ha fatto “inciampare” nel corpo. Porre l’idea di lontananza in relazione alla velocità del corpo cambia tutti i parametri, basti pensare al compiere duemila metri di ascensione a piedi in montagna. Se si guarda al corpo inserito nell’ambiente, si ripristinano le lontananze di un tempo. Ciò vale dal punto di vista antropologico, ma anche dell’apprendimento perché il nostro corpo ha delle telemetrie che richiedono tempi per il recupero».
Niente a che vedere con l’always-on che caratterizza sempre più aspetti della vita sociale e del singolo?
«Il sempre in linea è disumano, e per fortuna non possiamo attuarlo. Parlare di New York come di città “che non dorme mai” è una follia. Si ha bisogno di spegnere l’apparato digitale ma anche il proprio. La vicinanza che i social garantiscono si è rivelata del tutto fallace rispetto a quella che scaturisce da rapporti di interazione profonda. Quando ci troviamo di fronte a gesti ed espressioni, nella vita privata e non solo, tutto cambia. La possibilità di vincere la lontananza passa attraverso la sperimentazione di una profonda unità con un’altra persona, e l’unione nella separazione è davvero la sola condizione in cui l’uomo possa vincere l’esilio della lontananza».
Conoscere implica uno sforzo, far diventare nostro ciò che prima era all’esterno