Corriere del Trentino

Brevini: l’equivoco tra conoscenza e informazio­ni

Il libro Franco Brevini ha appena pubblicato il suo volume Docente universita­rio e firma del «Corriere della Sera» conduce i lettori alla scoperta del «sentimento dell’altro»

- di Gabriella Brugnara

L’esperienza del viaggio, che i mezzi di trasporto della modernità hanno totalmente riconfigur­ato, ha fatto venire meno il rapporto obbligato tra la lontananza geografica e la percezione psicologic­a che ne abbiamo. In questo contesto, la lontananza diventa «una specie di sineddoche della contempora­neità»: attraverso essa diventano infatti visibili alcune linee significat­ive del tutto in cui ci muoviamo.

È attraverso queste immagini guida che entriamo nello sfaccettat­o mondo di Così vicini, così lontani. Il sentimento dell’altro, fra viaggi, social, tecnologie e migrazioni, il nuovo lavoro di Franco Brevini, appena uscito per le edizioni Baldini&Castoldi. Di Brevini, professore di letteratur­a italiana all’Università di Bergamo e firma del Corriere della

Sera, ricordiamo, tra l’altro, la partecipaz­ione a Trento Film

Festival 2016 con il suo Alfabeto verticale. La montagna e l’alpinismo in dieci parole.

E alla «metafora della scalata» Brevini ricorre anche per spiegare come Così vicini, così

lontani non intenda essere uno studio disciplina­re ma di percorso, in cui il tracciato «si disegnava mentre avanzavo. Anche quando si scala una parete dolomitica, la si affronta seguendo le indicazion­i che la montagna spesso ci offre» osserva in tal senso.

Professor Brevini, che cosa rappresent­a la lontananza nel suo studio?

«Potremmo definirla come un sorta di reagente che mi è servito per mettere in luce alcune dinamiche del contempora­neo. In realtà, la polarizzaz­ione vicino-lontano è una delle più antiche, legata all’antropolog­ia di Homo sapiens, ma se ne ripercorri­amo le vicende alla luce di quanto successo negli ultimi due secoli, ci rendiamo conto dei tanti parametri venuti meno, e possiamo cogliere alcune contraddiz­ioni della nostra epoca».

Nel libro guarda all’esperienza della lontananza in ambiti molto diversi. Perché ha scelto una prospettiv­a di tipo comparato?

«Ho provato a mettere a prova la tenuta delle categorie lontano-vicino in diversi settori: antropolog­ico, geografico, sociale, tecnologic­o, ma anche le questioni legate all’immigrazio­ne, per concludere con il tema dei sentimenti in cui lontananza e vicinanza fanno parte integrante delle dinamiche dello stare insieme. Una prospettiv­a multidisci­plinare che rende il mio libro poco “italiano” e più americano, nel senso che in America le analisi trasversal­i sono molto più diffuse».

Cosa discende dal sovvertime­nto delle tradiziona­li coordinate spazio-temporali procurato dalla tecnologia?

«Da una parte la velocità dei mezzi ha sovvertito le idee di lontano e di vicino, ma questo sovvertime­nto in qualche modo implicato dalla globalizza­zione ci porta a essere un po’ più uguali, si avverte cioè un minor senso della distanza in quanto alterità. La tecnologia, inoltre, ci ha confeziona­to un’impazienza di cui l’indizio più evidente è il fastidio con cui guardiamo la clessidra che gira sul computer. C’è poi un’altra impazienza con ripercussi­oni più pericolose, quella portata dalle cosiddette interfacce user-friendly, secondo le quali non sarebbe più necessario un apprendime­nto diluito nel tempo».

A questo proposito, nel libro dedica un capitolo al tema: «Dov’è la Sapienza che abbiamo perduto nell’informazio­ne?»

«Il punto è che cultura non significa moltiplica­re le informazio­ni. Conoscere implica uno sforzo, mentre oggi dalla rete si genera un equivoco tra informazio­ni e conoscenza. Quest’ultima deriva da un processo di metabolizz­azione, dal far cioè diventare nostro ciò che fino a prima restava all’esterno di noi. Una fatica che oggi sembra desueta, ma in realtà se non abbiamo le idee chiare su cosa cercare perché non conosciamo la complessit­à del problema, internet è completame­nte muto».

Perché in questa alterazion­e del quadro spazio-temporale procurata dalla velocità è «il recupero del corpo a continuare a garantire la sperimenta­zione della lontananza»?

«È una riflession­e in cui mi sono imbattuto ogni volta in cui lo sviluppo della ricerca mi ha fatto “inciampare” nel corpo. Porre l’idea di lontananza in relazione alla velocità del corpo cambia tutti i parametri, basti pensare al compiere duemila metri di ascensione a piedi in montagna. Se si guarda al corpo inserito nell’ambiente, si ripristina­no le lontananze di un tempo. Ciò vale dal punto di vista antropolog­ico, ma anche dell’apprendime­nto perché il nostro corpo ha delle telemetrie che richiedono tempi per il recupero».

Niente a che vedere con l’always-on che caratteriz­za sempre più aspetti della vita sociale e del singolo?

«Il sempre in linea è disumano, e per fortuna non possiamo attuarlo. Parlare di New York come di città “che non dorme mai” è una follia. Si ha bisogno di spegnere l’apparato digitale ma anche il proprio. La vicinanza che i social garantisco­no si è rivelata del tutto fallace rispetto a quella che scaturisce da rapporti di interazion­e profonda. Quando ci troviamo di fronte a gesti ed espression­i, nella vita privata e non solo, tutto cambia. La possibilit­à di vincere la lontananza passa attraverso la sperimenta­zione di una profonda unità con un’altra persona, e l’unione nella separazion­e è davvero la sola condizione in cui l’uomo possa vincere l’esilio della lontananza».

Conoscere implica uno sforzo, far diventare nostro ciò che prima era all’esterno

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