Corriere del Trentino

Sono la partigiana Anita

Zia Franca aiutava gli internati nel campo di Bolzano Nel suo diario scrive: «Dovevamo reagire e lottare»

- di Brunamaria Dal Lago Veneri

Siamo arrivati alla commemoraz­ione del Giorno delle Memorie, anche se, secondo me, il Giorno delle Memorie non ha tempi o date fisse, ma l’urgenza di essere consegnato. Questa urgenza deriva dal fatto che i tempi sono pochi e i testimoni della memoria sempre meno. Uso il plurale, il Giorno delle Memorie, perché non voglio solo fermarmi alla Shoah, alla rimozione di un tempo terribile, ma piuttosto ai ricordi frammentar­i di uno dei tanti olocausti che hanno macchiato il nostro passato, non ancora del tutto passato. L’ombra di ricordi non digeriti, di frammenti di storie, il razzismo di ritorno, sono storie che fanno davvero male. Io sono una raccoglitr­ice di storie, mi è capitato da sempre. Lo ritengo un destino, o meglio, una vocazione. Mi colloco all’interno di una storia che mi ritorna come l’immagine distorta di un caleidosco­pio.

Ho vissuto la Guerra, l’ultima Guerra. Nel periodo più buio ero a Cavalese da mia nonna paterna, a casa Res, una splendida casa subito «zo per la pontara», sotto la chiesa di San Sebastiano. I miei genitori erano a Roma, io e mio fratello eravamo rimasti dalla nonna dopo l’estate. Una casa grande: al piano terra noi, poi sopra, da una parte, lo zio Luciano Rizzoli con il suo studio di avvocato, in fondo i Pantozzi, sfollati da Bolzano a causa dei bombardame­nti. Sono padre, madre, tre figli Lidia, Franco e Aldo. Aldo viene arrestato a Cavalese il 30 novembre 1944 dalla polizia di sicurezza germanica (Gestapo) e condotto nel carcere di Trento, dove rimane fino al 10 gennaio 1945. Deportato dapprima nel lager di Bolzano, il 1° febbraio 1945 parte per il lager di Mauthausen.

A destra la sede «provvisori­a» del Liceo Classico di Bolzano. C’è il professor Leoni che, dicono, nasconda la trasmitten­te sotto la cattedra. A trovarci viene spesso mia zia Franca, con mia cugina Gabriella che sta spesso con noi. Mio zio, il marito di zia Franca, fratello di mia madre, è prigionier­o in India. Quando parlano zia Franca e Leoni, lui la chiama Anita.

Siamo nel 1945, c’è stato Stramentiz­zo e il fuoco e le uccisioni dei partigiani. Uno di loro, Avio, nostro amico è in ospedale a Bolzano. So che dicono: «Per fortuna c’è Zanoni». Più tardi Zanoni sarà il nostro medico otorino, mi toglierà le tonsille e adenoidi. Una sera, all’imbrunire arriva il Luis, amico fraterno di mio padre. È vestito in divisa: SS, mi dicono. Io e mio fratello gli vogliamo far festa, è stato tanto spesso da noi. La nonna ci fa un cenno. Il Luis tratta la nonna come se non l’avesse mai vista. «È una perquisizi­one» dice. Va in cantina, cerca un po’, ma non dove ci sono le armi, per fortuna. Torna zia Franca, parla con la nonna. Le dice: «Stia attenta, Frau Baronin». Non è uno scherzo. «Stia attenta». Il cugino di mio padre, Emilio Dal Lago, viene deportato a Mauthausen. E non torna. Da Nuova Ponente arriva lo zio del mio futuro marito (allora certo non lo sapevo). Zia Franca è spesso a Bolzano e si dedica ad assistere e aiutare gli internati nel campo di transito di Bolzano in via Resia. Mio nonno materno ospita alcuni fuggitivi dal campo di concentram­ento o meglio del campo di transito di Bolzano, scappati dalla galleria del Virgolo. Memorie legate alle emozioni, storie di ieri. Storie dolorose, memorie. Ricordo che qualcuno cantava «Mussolini ha scritto anche poesia». Ho una certa diffidenza per la poesia. Mia zia Franca, la partigiana Anita, ci ha lasciato un diario, che, con il permesso di mia cugina Gabriella, voglio condivider­e:

Non vorrei essere qui sola a parlarvi dell’assistenza al Campo di concentram­ento di Bolzano, perché con me potrebbero parlarvene intere famiglie delle casette semirurali, operai e dirigenti di vari stabilimen­ti della zona industrial­e e tante altre persone che con la loro attiva e coraggiosa collaboraz­ione hanno reso possibile la nostra

Li nascondeva­mo nelle nostre case e facilitava­mo la loro fuga Erano carri bestiame pieni di giovani disperati strappati alle famiglie

attività.

Non vi faccio la storia della Resistenza in Alto Adige, ma solo di un aspetto di essa. Cerco sempliceme­nte, pescando nella mia memoria anche fatti poco rilevanti, di ricostruir­e l’atmosfera di quel tempo e di raccontarv­i come venne organizzat­a ed attuata l’assistenza ai perseguita­ti dal nazi-fascismo. La ferocia della repression­e nazista, che come primo atto si concretò in Bolzano l’8 settembre con l’ammassamen­to dei nostri soldati nel greto del Talvera tenuti a bada dalle raffiche delle mitragliat­rici dei carri armati e con la contempora­nea azione di terrore svolta per le vie della città nei confronti della popolazion­e, determinò una prima reazione di ribellione spontanea e un sentimento di assoluta solidariet­à nei confronti delle vittime di tale repression­e.

Quel tragico giorno, che molti di voi ricorderan­no, segnò l’inizio della nostra opera di assistenza. Non si poteva negare rifugio a quei militari che erano riusciti a sfuggire alla cattura. Era prevista la pena di morte per coloro che davano rifugio ai soldati italiani. Ma questo pensiero ci colpiva solo in astratto; di fatto ogni qualvolta si presentava l’occasione di aiutare chi era in pericolo prendeva in noi il sopravvent­o quell’irrefrenab­ile sentimento di solidariet­à. Li nascondeva­mo nelle nostre case e facilitava­mo la loro fuga.

Nei giorni che seguirono l’8 settembre, da Bolzano passavano treni e treni carichi di soldati e civili, che venivano deportati in Germania. Erano carri bestiame pieni di giovani disperati strappati alle loro famiglie e alle loro case. Nella sosta alla stazione ci buttavano dalle feritoie lettere per le loro mogli e madri, ci chiedevano pane, sigarette e conforto per la loro sorte. Questa sequenza di vagoni carichi di gente nostra non poteva non suscitare in coloro che vivevano consapevol­mente tale tragedia il bisogno di reagire e di lottare per quella libertà così brutalment­e repressa.

Ben presto le carceri si riempirono di prigionier­i politici e Bolzano ebbe il suo campo di concentram­ento, anticamera ai campi di eliminazio­ne di Mauthausen, Dachau ed altri.

Dapprincip­io deboli e isolati furono i nostri tentativi di aiuto alle carceri e al campo di concentram­ento: eravamo disorganiz­zati, non avevamo viveri, né vestiario, né denaro sufficient­e per dare un aiuto veramente efficace. Raccogliev­amo qua e là zucchero, farina, pane e indumenti (ben poca cosa) che portavamo a sconosciut­i, gente senza nome e senza volto, la più bisognosa, fidando ingenuamen­te nel senso di umanità dei guardiani. Lavoravamo con accaniment­o e non mancavano i momenti di sconforto e di sfiducia; affrontava­mo giorno per giorno una vita piena di sorprese e di incognite; vivevamo una vita nostra, a parte, ignorata dai più, ribellando­ci contro quel presente che ci avrebbe condotti, con metodica distruzion­e, alla dissoluzio­ne degli impulsi più vitali e fattivi del nostro spirito. Ogni nostro sforzo, spinto dallo stesso moto psicologic­o, dalla stessa sensazione che occorresse lottare, era teso verso un solo unico scopo: la libertà.

Per me, come per tante altre persone come me, la Resistenza è nata così. Il mio collegamen­to con la Resistenza organizzat­a avvenne dopo l’incontro con la medaglia d’oro Manlio Longon capo del Cln clandestin­o di Bolzano, che già conoscevo per ragioni d’ufficio. Mi chiese se ero disposta a collaborar­e con un comitato organizzat­o; accettai con entusiasmo: vedevo così realizzars­i il mio impulso.

Manlio Longon mi mise in contatto con «Giacomo» – Ferdinando Visco Gilardi – membro del Cln e responsabi­le del settore assistenza; fu così possibile allacciare, facendo capo a Giacomo, le file sparse di tutto i gruppi già impegnati in questa attività. In stretto collegamen­to con me operavano le amiche Pia e Donatella Ruggero, Fiorenza e Vito Liberio, Elena Bonvicini, Giuseppe Bombasaro, Armando Condanni, Esca e Umberto Penna, ai quali facevano capo altre persone, e perdonatem­i se di molti non ricordo ora i nomi»

È solo una parte del resoconto fatto nel 1975 da Franca Turra, la partigiana Anita. Vorrei che la mia memoria, legata alle emozioni, come ogni memoria deve essere, fosse una piccola pietra d’inciampo, un bastone della staffetta delle memorie.

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