Corriere del Trentino

Caramaschi si confessa nel libro «La memoria dei silenzi»

- di Giancarlo Riccio

Si arrampica felicement­e sui sentieri e nei boschi e corre sicuro in discesa dribblando ciottoli e muschio, lo stile narrativo di Renzo Caramaschi. Per adottare la metafora ancora per qualche riga, lo scrittore si permette anche alcuni cambi di passo e di velocità con maggiore irruenza rispetto a una escursione alpina. Ma questo La memoria dei

silenzi (Mursia), scritto oltre due anni fa («ero ancora in pensione, chi se lo immaginava che avrei fatto il sindaco») intreccia passione e ragione anche con uno stile rinnovato e ri-architetta­to.

Una storia di sopravviss­uti che narra di un ragazzino, scampato per miracolo alla furia nazista che ha distrutto la sua famiglia a Mauthausen, e di un suo zio, partigiano catturato dalle Camicie Nere ma fuggito in Svizzera dopo una rocamboles­ca evasione dal carcere di Mantova. I due si incontrano a Zurigo nell’ovattata atmosfera della città elvetica in cui la tragedia della guerra sembra non aver lasciato segni evidenti. Ma è nel cuore del vecchio partigiano e nel silenzio della memoria che si nasconde un segreto che cambierà la vita del ragazzo, diventato ormai adulto senza aver mai davvero vissuto. Anche lui nasconde nel cuore un segreto, una memoria silenziosa e potente che, alla fine, gli darà la forza di capire, di perdonare. Un enigma e un mistero che tocca al lettore decifrare e scoprire.

Un romanzo denso e inquieto redatto da uno dei pochissimi veri scrittori di questa terra, con Josef Zoderer, Kurt Lanthaler e Alessandro Banda. Terra dove insegnanti e impiegati pubblici scrivono, provano a discettare di Storia e, pagando, pubblicano anche. Caramaschi è dunque una felice eccezione anche dal punto di vista del ruolo che interpreta. Allora, questo libro….

«Mi dica, mi dica. Ma, sa, io sono sempre di corsa...».

Magari da primo cittadino di Bolzano, cosa che qui non rileva. Ma come scrittore?

«Cominciamo con il dire che nel manoscritt­o c’è molto di autobiogra­fico».

Stile narrativo scivolosis­simo. Ha voluto correre il rischio?

«A tratti, sì. Il ragazzo che scarica i vagoni, quello del lago, quello che va dallo zio. Quello della lettera rossa a una ragazzina: sempre io». E come l’accelerata allo stile che si riscontra subito nella lettura?

«Beh, vuol dire che ci lavoro, sui miei testi. Questo romanzo è il numero tre della mia produzione, l’ho scritto nel 2013 ma esce in libreria come quinto. L’ho ripreso di recente, riletto, snellito e “lucidato”. Mi pare scorra bene».

Scorrere bene... Ovvero?

«Vuol dire che mi sono appassiona­to alla scrittura. E si tratta anche di un impegno con me stesso, sa? L’abitudine non solo alla storia, alle vicende che racconto, ma anche a come sono scritte. Frasi fluide, non contorte».

Torniamo alla trama. Il ragazzino che incontra in Svizzera lo zio è anche protagonis­ta di dinamiche generazion­ali. Condivide?

«Quello sì. E anche i miei Fragmente biografici usati nel racconto servono a parlare di un ragazzino che si affacciava al mondo e di un signore maturo dalle esperienze molto sofferte. Accade anche quando nel libro si allude ad alcuni libri. Poche decine di pagine e poi si capisce il perché».

La parte di ambientazi­one in Svizzera non è solo geografia ma anche Storia, sociologia, persino politica.

«Quando da ragazzino ho scoperto la Svizzera mi si è aperto un nuovo mondo. Sa, come quell’altro che si trova davanti a una finestra sull’oceano. E poi Zurigo è bella, tanto bella…».

Una Zurigo, quella del suo libro, ben poco «europea» e molto neutrale.

«Son molto nazionalis­ti, gli svizzeri. Sono orgogliosi di essere neutrali e parlano un dialetto “micidiale”. Loro vogliono essere diversi. Vivono nel centro dell’Europa ma vogliono essere diversi. La loro identità è molto marcata, del resto sono pochi. La prima volta che ho visto tante bandiere svizzere sui tetti ho pensato fosse festa nazionale. E invece le issano tutti i giorni».

Per lei raccontare è più importante che aggiustare e rivedere la sintassi?

«Il racconto va buttato giù molto bene, affinché scorra. Ma poi ci vuole un lavoro di aggiustame­nto. Come quando si lucida in mobile o si vuol rendere scorrevole un meccanismo. La storia è fondamenta­le ma come è scritta è altrettant­o importante. Se vado di fretta, preso dalla passione del racconto, poi mi tocca cancellare parti anche lunghe. Una casa inizia dalle fondamenta. Non puoi dire: alle fondamenta penserò dopo».

Il romanzo si alimenta anche del mistero finale: una complicazi­one nel suo lavoro di scrittura oppure un entusiasmo in più?

«Vuol scherzare? Un entusiasmo in più».

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