Boato racconta il suo ‘68 «Trento, un caso unico»
Il libro L’eredità politica e culturale del movimento e di Lotta continua «Né nostalgia né celebrazione, ma ideali validi anche dopo 50 anni»
Il dialogo che segue si svolse a Poona, India, nel 1980. Il maestro Bhagwan Shree Rajneesh, guru del movimento spirituale degli arancioni, interroga un nuovo seguace, un italiano di 38 anni rinominato Swami Anand Sanatano («Eterna beatitudine»): «Sanatano, perché volevi fare la rivoluzione nel tuo Paese?». «Per cambiare le cose». «Per fortuna tu hai fallito, se avessi vinto saresti diventato come quelli che cacciavi». Sanatano rimane in silenzio e medita a lungo su quelle parole. Non sarebbe mai diventato come quelli che cacciava, qualunque cosa significasse. Perché Sanatano, alias Mauro Rostagno, leader del ‘68 trentino, fondatore di Lotta continua, il 26 settembre 1988 venne ucciso dalla mafia di Trapani. A febbraio era stato a Trento, alla facoltà di Sociologia, in occasione del ventennale del ‘68; forse a un certo punto si ricordò della risposta di Bhagwan e disse: «Per fortuna non abbiamo vinto».
Con queste parole di Rostagno e con il ricordo del suo sacrificio («eredità del movimento del ‘68, del suo impegno politico e civile») si apre Il lungo ‘68 in Italia e nel mondo (La Scuola, 352 pagine, 21 euro), l’ultimo libro di un altro grande protagonista del ‘68 trentino, l’allora leader dei cattolici di sinistra, cofondatore di Lotta continua ed ex parlamentare di Radicali e Verdi, nonché grande amico di Rostagno: Marco Boato (Venezia, 1944). Il testo, in libreria da oggi, «non è né nostalgico né celebrativo» chiarisce subito Boato nella prefazione, bensì «ricostruisce non solo cosa fu il ‘68 in Italia e nel mondo, ma da cosa nacque negli anni precedenti, come si caratterizzò il movimento in quell’anno “epocale” e anche “che cosa resta” a cinquant’anni di distanza. Un’analisi critica, senza mitologie e senza “demonizzazioni” postume, che si rivolge sia alle generazioni adulte o più “anziane”, sia alle nuove generazioni».
Un libro divulgativo e didattico, arricchito da numerose fotografie - molte delle quali relative all’esperienza trentina -, testimonianze personali e documenti inediti. Decisamente esauriente e di agile consultazione il lungo capitolo
Domande sul ‘68 e dintorni, in cui Boato risponde a quattordici domande di interesse generale raccolte nei numerosi incontri cui ha partecipato negli anni.
Boato, come spiega nel libro il 1968 fu l’apice di un processo lungo e complesso: quali furono gli episodi determinanti, prima e dopo quell’anno?
«Sono partito dalla rivolta del luglio 1960 contro il Governo Tambroni e sono arrivato fino al movimento del ‘77, che davvero conclude il “lungo ‘68” italiano, durato più che in qualunque altro Paese del mondo. Tra i tanti fattori posso citare il Free speech movement, la rivolta internazionale contro la guerra nel Vietnam e, in Italia, il ruolo del libro Lettera a una
professoressa di don Milani. Ma la dimensione fondamentale fu quella dell’anti-autoritarismo, che pervase non solo l’università, ma tutti gli ambiti sociali. La fine arrivò col movimento del ‘77, che fu stroncato non solo dalla repressione, ma anche dal dirompere della lotta armata e del terrorismo, preceduto dalla strategia della tensione e delle stragi».
Quali furono i maggiori meriti e demeriti dei movimenti studenteschi?
«I movimenti studenteschi del ‘68-‘69 furono il fattore scatenante di una ribellione antiautoritaria che poi pervase l’intera società, innescando una “lunga marcia attraverso le istituzioni” che produsse le grandi conquiste civili degli anni ‘70: statuto dei lavoratori, obiezione di coscienza, referendum e divorzio, diritto di famiglia, abolizione dei manicomi, depenalizzazione dell’aborto, consultori e molto altro ancora. Il maggior limite, passato l’entusiasmo della fase iniziale, fu quello di un eccesso di ideologizzazione».
Quale fu la peculiarità dell’esperienza trentina?
«L’esperienza di Trento fu tra le più innovative e originali in Italia e nel mondo. A Trento il movimento era partito già nel 1966 e aveva avuto una portata di innovazione sociale e culturale molto più forte che in altre città; l’esperimento della “Università critica”, ad esempio, non ha avuto paragoni in nessun’altra parte del mondo e anche il rapporto tra movimento studentesco e movimento operaio è stato tra i più positivi. A Trento inoltre non si verificò alcun episodio ricollegabile al terrorismo di sinistra, segno che l’eccesso di ideologismo era stato meno pesante che altrove».
Cosa prova oggi, cinquant’anni dopo, ripensando alla sua esperienza personale?
«Quell’esperienza fu straordinaria, ha lasciato un segno profondo dentro di me, tanto più in quanto vissuta contemporaneamente a milioni di giovani di tanti Paesi. Non ho nessun rimorso o rimpianto, anche se ovviamente ci sono state luci e ombre, come in tutte le cose umane. Gli ideali di giustizia e libertà, di antiautoritarismo e di partecipazione democratica mi sono propri anche oggi, dopo cinquant’anni. Sono rimasto un cristiano critico e un uomo impegnato sul piano politico e sociale, non ho mai rivolto la testa nostalgicamente all’indietro ma ho sempre continuato a guardare avanti con fiducia e speranza, nonostante tutte le miserie esistenti».
All’inizio del libro c’è un lungo elenco in ricordo di compagni di quella stagione che non ci sono più: c’è qualcuno che rimpiange particolarmente?
«Mi mancano in molti. Soprattutto Mauro Rostagno, Alexander Langer e Marta Losito. Ma, ahimè, l’elenco sarebbe ancora lungo, fino a Luigi Bobbio, mio coetaneo, morto nell’ottobre scorso».
Quali sono oggi i suoi rapporti con Adriano Sofri e Renato Curcio?
«Sono amico da sempre di Adriano Sofri e lo sento spesso, oltre a leggerlo tutti i giorni nella sua Piccola posta. Con Renato Curcio non ho più rapporti, perché la sua vicenda nelle Brigate rosse per me è stata una frattura profonda. Ma ne parlo comunque nel libro, dove riporto integralmente una bella lettera inedita che mi scrisse nell’agosto 1965, quando facevamo parte del Gruppo democratico intesa universitaria trentina, d’ispirazione cristiana».
Cosa intendeva Rostagno quando disse «Per fortuna non abbiamo vinto»?
«Era il suo modo, semplice e immediato, per dire che avevamo fatto tutti assieme una esperienza molto bella, ma che proprio l’eccesso di ideologismo successivo l’avrebbe resa improbabile come proposta politica generale».