TRE QUESTIONI NON AGGIRABILI
Le elezioni politiche di domenica hanno determinato un cambio di scenario netto e irreversibile, e da questo binario muoveranno le strategie per la scadenza elettorale autunnale che indicherà il nuovo presidente della Provincia. Sono due appuntamenti non sovrapponibili, ma la loro vicinanza e soprattutto la radicalità del voto appena concluso creeranno spazi di interferenza molto più profondi rispetto al passato.
Il centrosinistra autonomista deve aggiornare la propria proposta politica. L’inerzia con cui si approssimava a ottobre e il silenzio su alcuni nodi cardine (leadership, rappresentanza, riequilibrio dei rapporti tra la Provincia e le altre componenti della società, la dialettica sempre aperta tra centro e periferie) sono stati incrinati. Come si faceva una volta, la radiografia della sconfitta non dovrebbe prescindere da un’analisi sociale. È la parte più difficile perché la sinistra non dimora più nei luoghi del conflitto — come dimostrano i nostri servizi di questi giorni su fabbriche e quartieri popolari, orientati verso M5s e Lega — e l’elettore si muove con grande disinvoltura, talvolta in modo umorale non trovando più sponde in cui incanalare il proprio percorso. Re-insediarsi non è semplice perché sono stati seppelliti anche gli istituti dell’intermediazione sociale (Renzi è stato l’ultimo esecutore). Il problema della rappresentanza — più volte evocato, più volte aggirato — si afferma anche in questi termini: le candidature delle ultime elezioni politiche sono solo la conferma di una tendenza.
È evidente che domenica si è conclusa una storia allungatasi per più di un ventennio. Una storia di successo, intendiamoci, che ha inventato un’alternativa al conformismo berlusconiano. Nelle urne, però, sono stati respinti il fondatore del ciclo (Lorenzo Dellai) e due segretari politici su tre (Franco Panizza e Tiziano Mellarini) dei partiti più importanti. Non sono loro a poter dare le carte per il futuro, peraltro suggerendo evoluzioni algebriche (Ulivo 4.0) che sono quanto di più lontano dal sentimento popolare e quanto di più inespressivo sul piano concettuale. Ora il tema è: Patt e Upt hanno margini di recupero? La cultura popolare ha ancora radici nella società trentina, e se sì come si può riattualizzare, risintonizzare con il presente?
Il Pd trentino è il solo ad aver preso atto del voto al momento con un’assunzione di responsabilità del segretario uscente, e da lì non si può tornare indietro, pena la farsa.
Il copione nei dem rifugge spesso la grammatica politica perché prima si soppesano gli equilibri interni, le acrobazie dell’ego. Il Pd è immerso in un paradosso: ha tenuto rispetto all’irrilevanza di Patt e Upt, ma la sua emorragia di consenso prosegue. Persino a Trento, celebrato come fortino, il piatto piange con 3.800 consensi in meno rispetto al 2013. Ha il dovere di recuperare una proposta a sinistra, di guardare al di là del ceto medio e delle classi agiate a cui è attualmente confinato — e da cui buona parte della sua classe dirigente proviene — se vuole comprendere le ferite presenti nella società e guadagnare terreno.
In ogni caso, la questione del governo dell’Autonomia e, dunque, della sua leadership riprende quota anche in considerazione dell’indebolimento del ruolo di Ugo Rossi, regista infausto delle elezioni. Qui la coalizione dovrà avere la lucidità e la generosità per guardare oltre di sé e oltre le contingenze del protagonismo personale perché in ballo c’è la riconfigurazione di un modello di Autonomia che ricostruisca una sintonia con il sociale, ultimi compresi.