IL CASO ZANON E LA FAME DI SOBRIETÀ
Oggi c’è bisogno di sobrietà. Da vecchio magistrato mi ha colpito il caso del giudice Nicolò Zanon. L’auto blu veniva usata dalla moglie.
Abbiamo, in quest’epoca sì tormentata, una gran «fame» di stile, sobrietà, senso dell’etica; valori che a ben vedere hanno un buon grado di parentela con quello di legalità. E a me, da vecchio magistrato, ha fatto assai male soprattutto un episodio, cui i media, almeno quelli locali, non hanno prestato la dovuta attenzione. Mi riferisco alla vicenda relativa alla condotta del giudice costituzionale Nicolò Zanon, nominato nel 2014 da Giorgio Napolitano, che ha dato il destro alla Procura di Roma di metterlo sotto inchiesta per peculato d’uso; la stessa è stata poi archiviata. Tale componente del massimo consesso addetto alle garanzie costituzionali del nostro Paese — organo di 15 membri che, come notorio, viene investito essenzialmente della valutazione della conformità delle leggi ai principi della Carta costituzionale — per due anni, cioè dal novembre 2014 al marzo 2016, aveva permesso che, per due settimane al mese, la sua consorte, disponesse per suo esclusivo uso, dell’auto blu con autista, spettante al marito, quale uno dei tanti benefit, troppi, di cui godono i giudici costituzionali.
La signora Marilisa D’Amico, la moglie del giudice, è anch’essa costituzionalista, avvocato, docente universitario ed è stata exconsigliera comunale del Pd a Milano. Il giudice Zanon, che poi si è dimesso, respingendo, bontà sua, l’invito dei suoi colleghi a rimanere a far parte della Corte costituzionale, si è «assolto» sostenendo come ciò gli fosse permesso dal regolamento interno della Corte, emesso dalla stessa per il principio di autodichia, cioè di autogoverno; il termine «esclusivo», ha sostenuto, poteva essere interpretato nel senso che della modalità d’uso dell’auto assegnatagli il giudice non doveva rendere conto a nessuno!
Ma vi è di più e di più sconfortante. Anche tutti i suoi colleghi gli hanno dato ragione, mentre un ex giudice costituzionale ha dichiarato quanto era addirittura banale osservare e cioè che «la signora avrebbe dovuto avere il buon gusto di prendere un taxi o un auto privata. Mai mia moglie ha usato la macchina di servizio» (come pure gli era stato suggerito dal segretario generale del tempo interpellato al riguardo). A conferma della necessità di evitare un’interpretazione di comodo e del tutto opinabile, il 21 marzo scorso, dopo l’avvio dell’indagine penale, la Corte ha emanato un nuovo regolamento, il quale nel suo articolo 5 prevede che l’uso delle autovetture assegnate ai giudici dev’essere «esclusivo e personale».
Da ciò la conseguente archiviazione dell’indagine penale, di cui ho fatto cenno. E che in verità non mi lascia per niente convinto, perché resta il fatto che quell’uso improprio dell’auto da parte della moglie del giudice, poteva costituire un fatto penale ( articolo 314 c.p.) che non ritengo possa essere sanato da un regolamento, emanato successivamente all’accaduto e che non può assumere «valenza di normazione primaria». Ma non ho qui lo spazio per addentrarmi nella disquisizione giuridica ad hoc. A me interessava solo evidenziare quanto possa far male alla democrazia il fatto che financo un giudice siffatto possa aver dato una tale disinvolta interpretazione di un proprio censurabile comportamento.
In altra occasione ci premureremo altresì di chiedere conto di come possa il Consiglio superiore della magistratura — contravvenendo espressamente a quanto disposto con sua circolare del 2014 — aver deliberato di destinare direttamente alla Corte di Cassazione, senza aver percorso la prevista necessaria trafila giudiziaria, Donatella Ferranti, in aspettativa perché deputata Pd dal lontano 2008. Senza quindi scrivere da allora mai una sentenza.