Gli occhi di uomini e donne in guerra
Leoni spiega la mostra di Manifattura Rovereto aperta fino a dicembre Oltre 500 reperti e documenti, alcuni inediti, provenienti da 50 enti diversi
«La mostra è connotata da una dimensione terrigna, legata alla terra nel senso che, rispetto a un’oggettistica museale troppo bella per essere vera, abbiamo voluto privilegiare quella conservata dalla terra e dai ghiacciai, riportata alla luce grazie all’impegno di ricercatori e recuperanti».
Accanto a questa scelta curatoriale, diversi altri aspetti rendono Cosa videro quegli occhi! Uomini e donne in guerra. 1913-1920, uno dei progetti espositivi più interessanti tra quelli realizzati nell’ambito del Centenario. La mostra (aperta fino al 30 dicembre) è curata da Laboratorio di storia di Rovereto e organizzata dalla Fondazione museo civico di Rovereto presso Progetto Manifattura, a Borgo Sacco, Rovereto, in sale ripristinate da Trentino Sviluppo. Si tratta di circa seicento metri quadrati che costituiscono un interessante nuovo spazio di cultura aperto alla comunità. Un’esposizione che ha richiesto oltre un anno e mezzo di preparazione, cui attraverso prestiti e altre forme di collaborazioni hanno partecipato oltre 50 enti — trentini, italiani e internazionali — e più di 150 privati. Sono circa 500 i reperti e documenti in mostra, e buona parte di essi per la prima volta. A guidarci lungo il percorso è Diego Leoni, responsabile del Laboratorio di storia.
Dottor Leoni, da dove scaturisce l’idea?
«Le premesse risalgono a Gli spostati, la mostra che allestimmo nel 2015 a Palazzo Alberti Poja, dedicata alla vicenda dei profughi trentini durante la Grande guerra, un’iniziativa che aggiungeva un ulteriore tassello a ciò che il Laboratorio di storia, in quasi trent’anni di lavoro e divulgazione, aveva prodotto sul tema della Prima guerra mondiale».
Quale altro argomento non era stato approfondito?
«Mancava la storia dei soldati e dei prigionieri trentini, ma anche di coloro che li hanno accompagnati, mogli, madri, figlie che hanno condiviso sia l’esperienza della guerra sia quella dell’allontanamento da casa in quanto profughe. Furono arruolate infatti forzosamente dall’esercito austroungarico e divennero parte arriva del conflitto come operaie o impiegate, ricoprendo tutti i ruoli che in precedenza erano degli uomini e avevano ora bisogno di essere surrogati. Ma c’è un altro aspetto».
Cioè?
«Si tratta di una componente cui la storiografia si è dedicata pochissimo o che ha addirittura dimenticato, anche dal punto di vista dell’apparato celebrativo. Non si parla infatti mai di prigionieri russi e serbi, trasportati qui dal Fronte orientale e utilizzati come forza lavoro di tipo schiavistico per le mansioni più pesanti. Molti di loro ultimarono in Trentino la loro vita, e qui e non c’è nulla che li ricordi».
Si ha una stima dei numeri?
«Furono decine di migliaia, abbiamo calcolato dai quaranta ai sessantamila, e questa sproporzione tra il numero più basso e quello più alto dipende dalla mancanza di una contabilità precisa che li riguardi. Andavano, venivano, scappavano, morivano senza che si riuscisse a controllarli più di tanto. Queste categorie di persone — ragazzi, donne e prigionieri — costituirono quello che veniva chiamato esercito di riserva o parallelo, fondamentale perché i regolari potessero vivere e operare avendo alle spalle una forza non convenzionale».
Tutto questo in mostra «parla» attraverso che cosa?
«Appunto, attraverso gli occhi di coloro che videro, fecero, subirono. Come facciamo a saperlo? Perché questi occhi appartennero a persone che poi furono in molte a dare una testimonianza scritta di ciò che videro. Per questo ora noi possiamo raccontare e studiare tali vicende attraverso le loro straordinarie scritture, lettere, memorie, diari, ma anche con le fotografie. La mostra è costruita moltissimo su questo, in più utilizza una fonte che normalmente viene snobbata, anche perché non è facile da recuperare».
A che cosa fa riferimento?
«All’oggettistica. Siamo riusciti a mettere insieme e ad esporre nelle vetrine più di cinquecento oggetti. Sono prestiti di privati che li hanno conservati da allora, a volte gelosamente altre con indifferenza, custodendo in casa uno straordinario accumulo di materiali dotati di un potenziale altamente evocativo».
E che «cosa videro quegli occhi»?
«Videro una guerra crudele, videro quello che prima non era neppure lecito vedere perché non era lecito fare: la morte del camerata, dell’amico, corpi storpiati, offesi, villaggi incendiati e anche terre e genti che non si erano mai viste perché se è vero che la Grande Guerra fu “di posizione”, per i trentini fu anche di movimento. Molti furono inviati sul Fronte orientale e poi, se fatti prigionieri, attraversarono la Russia e la Siberia, arrivando spesso fino a Pechino. Gli ultimi fecero ritorno nel 1929».
Ci racconta lo sviluppo del percorso espositivo?
«La mostra si apre con una prima vetrina che narra la guerra come viaggio, come spostamento di uomini. Inizia quindi il percorso vero e proprio, con un andamento tra cronologico e tematico. Una sezione è dedicata alla religiosità istituzionale e popolare, quindi una affronta il tema della guerra in Galizia. E ancora, un approfondimento riguarda gli aspetti sanitari, mentre una sorta di monografia delinea due personaggi trentini straordinari: Gianni Caproni e Giovanni Battista Trener. Si parla poi di separazione e di affetti troncati, di ritorni epici, mentre le due sezioni conclusive danno spazio ai caduti, alla scrittura e alle fotografie».