L’EMBLEMA CHE RESTA A CASA
Carlo Daldoss rimarrà l’emblema delle elezioni provinciali anche se lui non ci sarà. Ha lavorato per costruire una lista al servizio della ricandidatura del governatore uscente Ugo Rossi, ne ha preso le distanze dopo il voto del 4 marzo per dialogare con l’Upt, ha indossato i panni del candidato presidente dell’area civica e li ha sfilati per accomodarsi al tavolo del centrosinistra. Infine, ha scelto di ritirarsi perché, sintetizzando, la coalizione uscente non ha ripagato politicamente la sua rottura del fronte civico con il ruolo da protagonista. I riflettori si spengono su di lui e sul progetto del civismo (scelta definitiva?) che intendeva replicare un terzo spazio alternativo a livello provinciale, ma ha trovato delle oggettive difficoltà di consenso e di allestimento delle liste nonostante l’abilità, quasi da bluffatori, a rimanere al centro della scena politica, dettando a lungo le regole d’ingaggio.
Daldoss (e non solo lui) è anche l’emblema dell’iper-personalizzazione in cui è precipitata la politica trentina. Non esistono valutazioni d’insieme, ma aspirazioni personali. I giudizi che contrastano con queste vengono accantonati. C’è un diritto aprioristico a vedersi riconosciuto anche ciò che gli altri non sono disposti a riconoscere o che la fenomenologia del reale quanto meno pone in discussione. Così facendo la progettualità politica e i contenuti — le grandi suggestioni che sono trait d’union dei destini — sono stati accantonati, rimossi.
L’unico esempio in controtendenza lo ha offerto Paolo Ghezzi, accettando a malincuore il verdetto.
Con l’ultimo capitolo scritto ieri dall’ex assessore tecnico, si delinea anche il quadro delle candidature. Il centrosinistra — che correrà come Alleanza democratica e popolare per l’Autonomia — dovrà giocare una partita di rincorsa sul centrodestra, penalizzata anche dal modesto spettacolo offerto in questi mesi. Lo scisma del Patt non è stato compensato al centro, ma l’Unione per il Trentino — il partito più in crisi della coalizione — potrà forse giovarsi dell’assenza dei civici. Giorgio Tonini è passato come nome di mediazione, di fatto un lucky loser. Dovrà convincere l’elettorato moderato, assai volubile, a scommettere sulla nuova coalizione e quello di sinistra, più movimentista, a non rifluire nell’astensionismo o in proposte più radicali. Su questo versante agirà la candidatura di Ghezzi, capace comunque di rianimare un’area da tempo alla deriva. Funzionerà anche in assenza di leadership? Qualcosa, probabilmente, si perderà.
Tonini e Ghezzi hanno punti di forza e di debolezza e si compensano. Tonini depotenzia l’esigenza di cambiamento — almeno quella intesa per sedare le esigenze dell’opinione pubblica — ma non si sovrappone ai personalismi interni ai dem e può garantire il partito di maggioranza relativa rispetto ad un’emorragia di voti che era già in cammino verso l’area di Ghezzi. È una candidatura di servizio che, in caso di sconfitta, potrà favorire l’ascesa di altre leadership. In teoria, rispetto a Ghezzi, doveva agevolare una maggiore coesione, ma il caso Daldoss sembra ridimensionare questo aspetto. Ghezzi era invece un nome più spendibile nell’ottica della discontinuità, nonostante tra i suoi sostenitori ci siano anche capitani di lungo corso. Per molti avrebbe avuto una capacità di mobilitazione superiore, forse meno nella palude centrista. Alla fine ha deciso l’Upt che pure aveva fatto trapelare un suo possibile sostegno.
Nel complesso la coalizione di centrosinistra ne esce minimizzata e con un profilo politico da ricostruire. Il leghismo ha la consistenza patrimoniale del vento nazionale, Tonini e la sua alleanza dovranno inventarsi un sogno collettivo se vorranno invertire il piano inclinato del voto. L’elezione tenderà inevitabilmente a polarizzarsi tra gli schieramenti della tradizione politica (centrosinistra e centrodestra) con il Movimento 5 stelle che agirà per ritagliarsi il ruolo di ago della bilancia e il Patt che rispolvererà l’identità. Le percentuali faranno la differenza.