Vendevano dati riservati: 9 arresti
Nei guai carabinieri, un finanziere, due poliziotti. In cella anche il noto detective Delmarco
Vendevano notizie e dati riservati a due detective privati. È l’accusa mossa a una coppia di poliziotti di Bolzano, due carabinieri e un finanzieri arrestati dai carabinieri del nucleo investigativo di Trento. In manette sono finiti anche il noto investigatore privato Mauro Delmarco, un collega Veneto e due collaboratori. Sette le persone denunciate. La difesa: «Scambio di favori, non c’è corruzione».
Mille euro, talvolta 500, TRENTO ma c’è chi si accontentava anche di 100-150 euro. Era il prezzo della «sbirciatina» nei «cervelloni» di carabinieri, polizia e finanza per scovare dati economici e finanziari di cittadini, ma anche di società, indagare la vita delle persone, abitudini e relazioni extraconiugali.
Informazioni coperte da segreto d’ufficio e dalla privacy venivano candidamente dirottate a due investigatori privati. Uno di loro, Mauro Delmarco, 46 anni, di Cavalese, è titolare di una delle agenzie d’investigazioni più note in Trentino Alto Adige. Ma molti dati sarebbero stati girati anche ad un altro investigatore veronese, Matteo Zamboni, titolare della «Matrix» di San Martino Buonalbergo. E i protagonisti non sono cittadini qualunque, ma poliziotti, carabinieri e finanzieri che avrebbero violato i propri doveri andando a caccia di informazioni per conto dei due investigatori. E per questo sarebbero stati pagati.
Gli «infedeli»
È una pagina «amara» per chi dedica la vita a combattere il crimine, come tanti uomini in divisa, e si sacrifica per farlo, quella che affiora dalla delicata indagine condotta dal nucleo investigativo dei carabinieri di Trento. Dopo quasi due anni di indagini gli investigatori dell’Arma, coordinati dal pm Maria Colpani, hanno svelato un presunto sistema di corruzione che ha coinvolto finanzieri, carabinieri e agenti di polizia di Stato, accusati di aver rivelato notizie riservate, carpite dai sistemi Sdi e Ced Interforze e dalle banche dati dell’Inps ai due investigatori che le utilizzavano per fini professionali. Sette rappresentanti delle forze dell’ordine «infedeli» sono finiti nel mirino dei colleghi, ma nei guai sono finiti anche i due investigatori, la moglie di uno di loro, l’amica e i collaboratori.
L’operazione «Basil»
Ieri mattina all’alba i carabinieri di Trento hanno bussato alla porta di casa di otto dei sedici indagati con in mano un’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari firmata dal gip Marco La Ganga. In manette sono finiti, oltre a Delmarco e Zamboni, un loro collaboratore di Padova, tecnico informatico di 45 anni, Andrea Cervelli. Un altro collaboratore, invece, è ancora ricercato. Sono stati poi arrestati il finanziere bolzanino Cristian Tessadri, 48 anni, una coppia di poliziotti di Bolzano, Rossana Romano, 49 anni (ora sospesa), e il marito Peppino Spagnuolo, 60 anni (in pensione da 5-6 anni), e due carabinieri, Carmelo Carone, 41 anni, di Taranto e Luigi Rosalia, 44 anni, di Ro- ma. I nove sono accusati a vario titolo di corruzione, istigazione alla corruzione, rivelazione di segreti d’ufficio e accesso abusivo a un sistema informatico. Altre sette persone sono state denunciate.
Secondo quanto ricostruito nel corso delle indagini i cinque rappresentanti delle forze dell’ordine sfruttando le proprie credenziali accedevano al portale interforze per carpire informazione che venivano poi usate per cause di lavoro o di divorzio. Dati e notizie che venivano poi usate nelle aule dei tribunali per riuscire, magari, (ma è solo un esempio) a ottenere un assegno di mantenimento più sostanzioso.
Scambi via WhatsApp
Ed ecco spuntare dai taccuini degli investigatori nomi di ignari amanti, ex mogli tradite, identificati durante regolari controllo stradali delle forze di polizia, verifiche fiscali su mariti coinvolti in cause di divorzio. Poi c’era chi voleva sondare eventuali querele sporte da vicini di casa petulanti o capire se la tal società aveva i conti a posto. Bastava un click ed ecco l’informazione richiesta, che veniva poi puntualmente girata agli investigatori. I contatti, secondo l’accusa, erano quotidiani, ma le comunicazioni avvenivano solo via WhatsApp o attraverso Telegram perché so-
no difficilmente rintracciabili. Forse, in questo modo, erano convinti di non essere scoperti. Ma si sbagliavano. L’investigatore nel suo telefono «custodiva» un tesoretto di dati, convinto, forse, che i sistemi di sicurezza del suo iPhone fossero praticamente impenetrabili. Così quando gli investigatori hanno chiesto il Pin Delmarco si sarebbe rifiutato di darlo.
Ma dove l’Fbi non era riuscita nel 2016, aveva impiegato mesi per forzare il codice criptato del terrorista di San Bernardino, ci sono riusciti gli informatici dei carabinieri. Grazie ad un delicato lavoro di tecnologia e informatica sono riusciti a entrare nel telefono e a scovare le presunte comunicazioni illecite tra le forze dell’ordine e l’investigatore. Queste le accuse che dovranno essere provate.
Il procuratore
Resta lo sconcerto per un’inchiesta che ha svelato un «collaudato» sistema illegale di informazioni attraverso l’utilizzo di dati che «fino a cinquant’anni fa potevano essere oggetto di pettegolezzo — ha commentato il procuratore di Trento, Sandro Raimondi — ma oggi sono protetti. La cosa più grave è che queste persone non lo facevano per amicizia, ma per denaro. C’era un rapporto di continuità». Raimondi non nasconde le «ricadute pesanti che possono derivare da questo scambio di informazioni perché si può alterare il corso di un procedimento civile. Quindi c’è una sorte di frode nei confronti della giustizia».
Poi c’è l’aspetto legato alla fiducia dei cittadini nelle forze dell’ordine. «Vogliamo fare pulizia all’interno —— ha detto il comandante provinciale dei carabinieri, il colonnello Luca Volpi — le mele marce devono essere eliminate».
Il procuratore «Pesanti ricadute queste informazioni possono alterare procedimenti»