Sarfatti, artista poliedrica Il Novecento nel mondo
Un secolo d’arte nella parabola di una intellettuale poliedrica La mostra al Mart
Una mostra ricca di aspetti, che approfondisce la poliedrica figura di intellettuale, giornalista, storica dell’arte, collezionista, impegnata in politica, ma anche di donna e di madre. Un percorso in sei sezioni che mette in luce «il suo ruolo di curatrice ante litteram, quando detto ruolo non esisteva affatto: una personalità che ha saputo incidere sulla cultura del suo tempo, in un mondo ancora dominato dagli uomini».
Con questo sguardo a tutto tondo la curatrice Daniela Ferrari delinea le coordinate di «Margherita Sarfatti. Il Novecento Italiano nel mondo», l’esposizione da oggi e fino al 24 febbraio visitabile al Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto. Accanto a quella del Mart, il progetto dedicato alla figura di Sarfatti si compone di un’altra tappa, inaugurata in contemporanea al Museo del Novecento di Milano, dal titolo «Margherita Sarfatti. Segni, colori e luci a Milano».
Colta, ambiziosa, raffinata, appartenente a una facoltosa famiglia ebrea, Margherita Grassini (Venezia, 1880 – Cavallasca, 1961) acquisisce notorietà con il cognome del marito Cesare Sarfatti, che sposa nel 1898. Non a caso, la prima sezione della mostra di Rovereto le dedica un «ritratto di signora», indispensabile per capire la vastità culturale e di interessi da cui era animata. Sin da giovane può infatti studiare con alcuni grandissimi maestri, e conosce perfettamente l’inglese, il francese, il tedesco. Si afferma subito come giornalista, il suo primo articolo è del 1901. «Il suo è uno sguardo decisamente nuovo sull’arte contemporanea – spiega Ferrari – In questa prima sala diamo spazio anche alla sua figura di collezionista, testimoniata dal dipinto straordinario con cui apriamo il percorso, Ritratto della signora Cragnolini Fanna di Umberto Boccioni, del 1916, un caleidoscopio di colori, sembra quasi che l’opera sia dotata di luce propria». Una sala che dipana il racconto attraverso alcuni noti ritratti di Margherita Sarfatti, tra cui quello di Sironi, ma anche del marito Cesare Sarfatti (di Giacomo Grosso) e della figlia Fiammetta (di Massimo Campigli). Notevole pure l’accostamento dei ritratti in marmo di Margherita e Cesare Sarfatti, realizzati da Adolfo Wildt, e la presenza di alcuni Medardo Rosso che appartenevano alla sua collezione, come il Bambino ebreo, sulla cui base è riportata una dedica alla Sarfatti. Si attraversa quindi la sala «artisti allo specchio», che raggruppa tutti gli autoritratti e un ritratto dei protagonisti della «moderna classicità» l’efficace ossimoro coniato da Sarfatti per definire la sua estetica - per giungere al cuore del progetto: il ruolo di Sarfatti come curatrice e organizzatrice di esposizioni in Italia e all’estero.
La sezione «le mostre in Italia» propone, tra l’altro, una ricca selezione di capolavori esposti innanzitutto nella Biennale del 1924, quando il gruppo dei sei pittori di Novecento, riuniti sotto il concetto di «moderna classicità», fa il suo esordio davanti a un pubblico internazionale. «In quegli anni, mentre tutta l’Europa è calata nel clima del ritorno all’ordine, Sarfatti guarda a un’arte che “tanto più sarà classica tanto meno incapperà nel classicismo” – osserva la curatrice -. Nessuna forma di imitazione dei classici, dunque, ma la volontà di trarre dagli antichi un senso di ordine, di armonia, di misura, non disgiunti da una sottile malinconia».
L’intero percorso sviluppa un dialogo tra opere d’arte e documenti, una mostra di ricerca che scaturisce dallo studio pluriennale del Fondo Sarfatti, conservato presso lo stesso Mart, composto da lettere, fotografie, studi, riflessioni, cataloghi di mostre. Ci avviciniamo così a «da Dux a Acqua passata», la sala che approfondisce la parabola sarfattiana nei confronti di Mussolini, dalla biografia che lei gli dedica nel 1925, «tessendone una sorta di apologia», ad Acqua passata, libro che scrive nel 1955, in cui la figura del duce non è neppure nominata. Tra le lettere più interessanti della sezione, c’è anche quella che il duce le scrive dissociandosi dalla sua idea di Novecento italiano. «Un documento estremamente crudo – interviene ancora Ferrari – in cui lui dice di disapprovare “nella maniera più energica questo tentativo di far credere che la proiezione artistica del fascismo sia il vostro Novecento”». Siamo nel 1929, e vediamo un duce che la allontana sempre di più dai centri culturali del potere. La promulgazione delle razziali, nel 1938, costringerà Sarfatti all’esilio a Parigi, poi a Barcellona, Montevideo, Buenos Aires. Rientrerà in Italia nel 1947. Entriamo infine ne «le mostre all’estero», una rassegna di molte delle opere che dal 1926 in poi hanno viaggiato attraverso più di venti progetti espositivi, prima di tutto a Parigi, e poi a Ginevra, Zurigo, Lipsia, Buenos Aires, Montevideo, Berlino, fino ad arrivare a Helsinki e a Oslo. Aiutano a comprendere ancora meglio questa complessa figura di donna, le quattro gigantografie che il Mart le dedica: la prima nel contesto della sua casa, poi attorniata da personaggi importanti, e ancora mentre sta declamando in una conferenza sull’arte italiana, quindi in un allestimento a Berna.