«Tante conquiste, ma la parità è lontana»
Bagni Cipriani: «Il primo fattore di discriminazione è la maternità»
Secondo una stima dell’Unione sindacale di base per raggiungere la piena parità salariale le donne in Italia dovranno aspettare ancora duecento anni. Ma cosa possiamo fare nel frattempo? A questa domanda proverà a rispondere la consigliera nazionale di parità Francesca Bagni Cipriani che oggi alle 15.30 sarà a Palazzo Pat per un convegno sulle discriminazioni di genere nel lavoro in vista dell’8 marzo.
Consigliera, a che punto siamo in Italia in materia di parità?
«Direi che purtroppo la nostra situazione è sempre un po’ peggiore rispetto a quella degli altri Paesi europei. Ad oggi, infatti, le lavoratrici italiane, pur essendo in media più qualificate dei colleghi maschi, guadagnano il 23% in meno».
Quali sono le principali cause del divario?
«Le responsabilità familiari delle donne, che condizionano i loro orari di lavoro e percorsi di carriera. Si stima che nel nostro Paese una donna dedichi gratuitamente più di millecinquecento ore l’anno ai compiti di cura, contro le sole ottocento degli uomini».
Eppure, non è che nei Paesi scandinavi, spesso citati come esperienze all’avanguardia, le donne facciano meno figli, anzi.
«Esatto, però lì lo Stato supporta sia loro che i papà con servizi specifici. In Italia invece le mamme devono ingegnarsi da sole e la maternità finisce per essere vissuta dai datori di lavoro come un peso, soprattutto nelle piccole medie imprese. E questo è comprensibile, perché la questione del sostegno alla genitorialità non può essere risolta dai singoli. È il sistema Paese che dovrebbe farsene carico».
Quindi da noi il primo fattore di discriminazione è la maternità?
«Sì. Le donne vengono assunte meno per il timore che prima o poi abbiano figli. Oppure vengono emarginate una volta rientrate in ufficio dopo la prima gravidanza».
E in Trentino?
«Mi sembra che qui ci sia un buon grado di civiltà, perché i servizi pubblici sono funzionali ed efficienti. Ma si può sempre fare meglio».
Quest’anno l’8 marzo compie centodieci anni. Ha ancora senso celebrarlo?
«Sì. Date come questa servono a fare il punto sullo stato dell’arte. Sulle conquiste ottenute, ma anche sui problemi ancora irrisolti. Penso che venerdì si parlerà molto di violenza e femminicidio, perché sono temi che scioccano. Spesso però la discriminazione è l’anticamera della violenza stessa. Perciò mi piacerebbe che l’8 marzo la combattessimo mettendo in luce la forza delle donne come risorsa economica per il Paese».
Ha destato scalpore la sentenza che ha dimezzato la pena del femminicida che avrebbe ucciso in preda a una «tempesta emotiva». Secondo Lei la violenza viene condannate in maniera abbastanza decisa dai media e dall’opinione pubblica?
«A volte sì, ma altre no. E purtroppo la comunicazione condiziona le opinioni e dunque i comportamenti. Perciò assieme all’Accademia della Crusca abbiamo avviato un progetto per «revisionare» quelle espressioni della lingua italiana che sono portatrici di stereotipi di genere negativi».
Un consiglio alle bambine e alle ragazze di oggi?
«Di coltivare la conoscenza, l’indipendenza economica e il pensiero critico. Di non rassegnarsi a fare le cose come gli altri dicono che vanno fatte e di non avere paura della diversità, perché non è un limite, bensì una ricchezza».
In Italia le mamme devono ingegnarsi da sole, perché poco supportate
In Trentino c’è un buon grado di civiltà ma si può sempre fare meglio