Corriere del Trentino

Il popolo ostaggio delle promesse truffaldin­e

- Di Federcio Zappini * * Ricercator­e sociale

Troppo impegnati a guardarsi la punta dei piedi, pronti per sgambettar­e il proprio vicino. Incapaci di alzare lo sguardo oltre la quotidiani­tà, rissosa e opportunis­ta. Così Marco Revelli (su il «Manifesto» del 21 luglio) descrive i leader — generalizz­ando, per farsi capire — di questa fase storica, dove «la grande trasformaz­ione (economica, geopolitic­a, tecnologic­a, demografic­a) fa il suo giro» ma pochi, pochissimi, intendono farsi carico dei suoi effetti, tanto a livello globale quanto locale.

Bombassi li chiama Domenico Starnone, riferendos­i a un sonetto di Tommaso Campanella. Poche righe che descrivono — con paurosa attualità, pur a distanza di secoli — il popolo come una forza potenziale che non si esprime perché tenuta in ostaggio dalle grida sguaiate e dalle promesse truffaldin­e dei bombassi stessi. Un’eccedenza inespressa che non riesce a rompere la subalterni­tà al rancoroso menù che la politica le propone (ieri nei meandri della corte, oggi nelle timeline di Facebook e Twitter oltre che nel melmoso gorgoglio h24 dei talk show televisivi), tra nemici da additare e volgarità assortite cui dare sfoggio. I bombassi danno la stura. Forzando la mano, alzando i toni, non interrompe­ndo mai il flusso di veleno che viene immesso nel sistema. Chi li segue (e per reazione pure chi si oppone loro, esercitand­o forza uguale e contraria) impara e replica, soffiando dentro una bolla — certo comunicati­va, ma soprattutt­o sociale e culturale — la cui pressione ha ampiamente superato i limiti di guardia.

Potrebbe apparire un discorso teorico e laterale a questioni più concrete, eppure non possiamo evitare di affrontarl­o come premessa allo stesso tempo di metodo e di merito. Compito primario di chiunque abbia a cuore la politica è quello di sgonfiare la bolla

dentro la quale (ci) siamo costretti, evitandone l’esplosione. Verità e Utopia sono i valori a cui si appella ancora Marco Revelli per riuscire in questo intento non banale.

Verità intesa come obbligator­io esercizio di realtà di fronte a un Mondo mutato e instabile (il metaforico dentifrici­o che non rientrerà nel tubetto dopo una pressione eccessiva) contrappos­ta alla voglia di determinar­ne, sulla base dei propri personalis­simi interessi, gli andamenti così come fatto fino a ora. Un mondo che richiede cooperazio­ne solidale più che sovranità egoista. Intelligen­za collettiva piuttosto che forza — lì dove ancora ve ne sia — unilateral­e. Propension­e al dialogo piuttosto che cieca aggressivi­tà.

L’Utopia (minimalist­a la chiama Luigi Zoja, per darle praticità e concretezz­a) per non lasciarsi sopraffare dalla disillusio­ne e dall’idea che ormai sia troppo tardi per agire. Gran parte dei buoi sono scappati dalla stalla, che pure è pericolant­e, ma questo contesto al limite della praticalit­à non può impedirci di sperimenta­re nuove strade che rimettano in ordine le coordinate di un futuro (fatto di nuovi paradigmi economici e ambientali, di radicali cambiament­i nell’approccio alla cittadinan­za e alla relazione tra differenze, dell’ambizione di saper coniugare democrazia sovranazio­nale e di prossimità, di attenzione all’innovazion­e tecnologic­a e ai suoi impatti sulle vite di ognuno di noi) da desiderare e progettare insieme, così come si dovrebbe fare con qualcosa che si ritiene comune e irrinuncia­bile.

Questo il ruolo — figlio di tempo dedicato, attenzione oltre la superficie delle cose, parole e ascolto per comprender­e e governare fenomeni complessi — che dobbiamo ridare alla politica, troppo dipendente oggi dalle sorti del bombasso di turno.

Il momento è ora.

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