Il popolo ostaggio delle promesse truffaldine
Troppo impegnati a guardarsi la punta dei piedi, pronti per sgambettare il proprio vicino. Incapaci di alzare lo sguardo oltre la quotidianità, rissosa e opportunista. Così Marco Revelli (su il «Manifesto» del 21 luglio) descrive i leader — generalizzando, per farsi capire — di questa fase storica, dove «la grande trasformazione (economica, geopolitica, tecnologica, demografica) fa il suo giro» ma pochi, pochissimi, intendono farsi carico dei suoi effetti, tanto a livello globale quanto locale.
Bombassi li chiama Domenico Starnone, riferendosi a un sonetto di Tommaso Campanella. Poche righe che descrivono — con paurosa attualità, pur a distanza di secoli — il popolo come una forza potenziale che non si esprime perché tenuta in ostaggio dalle grida sguaiate e dalle promesse truffaldine dei bombassi stessi. Un’eccedenza inespressa che non riesce a rompere la subalternità al rancoroso menù che la politica le propone (ieri nei meandri della corte, oggi nelle timeline di Facebook e Twitter oltre che nel melmoso gorgoglio h24 dei talk show televisivi), tra nemici da additare e volgarità assortite cui dare sfoggio. I bombassi danno la stura. Forzando la mano, alzando i toni, non interrompendo mai il flusso di veleno che viene immesso nel sistema. Chi li segue (e per reazione pure chi si oppone loro, esercitando forza uguale e contraria) impara e replica, soffiando dentro una bolla — certo comunicativa, ma soprattutto sociale e culturale — la cui pressione ha ampiamente superato i limiti di guardia.
Potrebbe apparire un discorso teorico e laterale a questioni più concrete, eppure non possiamo evitare di affrontarlo come premessa allo stesso tempo di metodo e di merito. Compito primario di chiunque abbia a cuore la politica è quello di sgonfiare la bolla
dentro la quale (ci) siamo costretti, evitandone l’esplosione. Verità e Utopia sono i valori a cui si appella ancora Marco Revelli per riuscire in questo intento non banale.
Verità intesa come obbligatorio esercizio di realtà di fronte a un Mondo mutato e instabile (il metaforico dentifricio che non rientrerà nel tubetto dopo una pressione eccessiva) contrapposta alla voglia di determinarne, sulla base dei propri personalissimi interessi, gli andamenti così come fatto fino a ora. Un mondo che richiede cooperazione solidale più che sovranità egoista. Intelligenza collettiva piuttosto che forza — lì dove ancora ve ne sia — unilaterale. Propensione al dialogo piuttosto che cieca aggressività.
L’Utopia (minimalista la chiama Luigi Zoja, per darle praticità e concretezza) per non lasciarsi sopraffare dalla disillusione e dall’idea che ormai sia troppo tardi per agire. Gran parte dei buoi sono scappati dalla stalla, che pure è pericolante, ma questo contesto al limite della praticalità non può impedirci di sperimentare nuove strade che rimettano in ordine le coordinate di un futuro (fatto di nuovi paradigmi economici e ambientali, di radicali cambiamenti nell’approccio alla cittadinanza e alla relazione tra differenze, dell’ambizione di saper coniugare democrazia sovranazionale e di prossimità, di attenzione all’innovazione tecnologica e ai suoi impatti sulle vite di ognuno di noi) da desiderare e progettare insieme, così come si dovrebbe fare con qualcosa che si ritiene comune e irrinunciabile.
Questo il ruolo — figlio di tempo dedicato, attenzione oltre la superficie delle cose, parole e ascolto per comprendere e governare fenomeni complessi — che dobbiamo ridare alla politica, troppo dipendente oggi dalle sorti del bombasso di turno.
Il momento è ora.