DEMOCRAZIA E CITTADINI
La qualità della democrazia in Trentino andrebbe migliorata, ma i cittadini sono tagliati fuori. La minoranza non ha gli strumenti per decidere, molti i rischi.
Un cammino iniziato nel gennaio del 2012, sette anni di impegno per suscitare un dibattito ampio e pubblico sul significato della democrazia, sulle sue forme e sulle sue potenzialità. Una corsa in salita, controvento. Una causa che ha attraversato tre legislature e che si è conclusa lo scorso giugno con un risultato assai modesto. I fatti in estrema sintesi: dei 50 articoli del disegno di legge di iniziativa popolare avviato nel 2012 non è rimasto nulla. Assolutamente nulla. L’impegno profuso per migliorare la qualità della democrazia nella provincia di Trento mediante l’introduzione di strumenti democratici complementari alla democrazia rappresentativa-elettiva non ha sortito effetto alcuno. L’iniziativa dei cittadini, benché ridotta a solo sette articoli nel disegno di legge 2/XVI, è stata congedata in Consiglio provinciale con una concessione ininfluente e umiliante: quorum abbassato dal 50% al 40%, bocciati tutti gli emendamenti, bocciati i due ordini del giorno collegati al disegno di legge. Da questa esperienza traiamo indicazioni per il cammino futuro.
L’autenticità della vocazione democratica si manifesta quando si è maggioranza. Questo il primo, basilare insegnamento. La proposta di introdurre istituti di democrazia integrativi è stata ignorata e umiliata sia dal centrosinistra sia dal centrodestra. Differenze? Nelle parole, qualcuna: per il centrosinistra democrazia e partecipazione sono temi centrali. Per il centrodestra molto meno. Nei fatti, nessuna: quando si ottengono i numeri per governare, il potere decisionale non si condivide con nessuno. La questione è sistemica, strutturale.
«All’inizio c’è come un popolo viene fatto votare». Così Giovanni Sartori, nell’incipit de «Ingegneria costituzionale comparata». Da oltre 20 anni andiamo al voto con leggi elettorali che, in virtù della governabilità, favoriscono la concentrazione del potere decisionale nelle mani di chi «vince». Sistemi artificiosamente iper-maggioritari (peraltro spesso incostituzionali) che costruiscono assemblee — legislative e amministrative — blindate. Le minoranze non hanno alcuna possibilità di incidere. Vale per il Parlamento, l’assemblea legislativa del Trentino, i Comuni. Gli esecutivi decidono, le assemblee ratificano. Nessuno disturbi il manovratore che ha vinto e ha il diritto di decidere — da solo — per tutti e su tutto. Non importa che chi vince governi, a conti fatti, con una quota minoritaria rispetto agli aventi diritto al voto. Qui il quorum non esiste ed è bene sia così. Peccato non valga pure per i referendum.
Una democrazia sana è fatta di pesi e contrappesi. Il principio di separazione dei poteri (esecutivo e legislativo) e la costruzione di un sistema che preveda reciproci controlli ed equilibri tra questi poteri sta alla base di una architettura democratica ed efficiente. Come si concilia tale principio con la vocazione ipersensibilità maggioritaria della nostra forma di governo? Se controllo e riequilibrio sono oggettivamente impediti — sia alle minoranze che siedono nelle assemblee, sia ai cittadini attraverso gli istituti partecipativi — come garantire i valori costituzionali supremi? Come cambiare una simile impostazione se la decisione sulle leggi elettorali è esclusivo appannaggio degli eletti? Nelle democrazie evolute le leggi fondamentali (quelle elettorali tra queste) sono sottoposte a referendum popolare. Contrappeso basilare: chi costruisce le regole del «gioco» che determinano la composizione della rappresentanza, inclusa la propria auspicata (ri)elezione, è in evidente conflitto di interessi. Indispensabile perciò il controllo popolare.
Il linguaggio è una convenzione, si sa. Fondamentale che il significato che si attribuisce alle parole sia quindi esplicitato e condiviso. Quando Trump o Orban parlano di democrazia intendono la stessa cosa di Sanchez o di Merkel? Le parole sono di tutti, le parole si trasformano nel tempo, le parole sono percepite e interpretate secondo individuale e cultura politica. Quando però si utilizzano parole-concetto essenziali, come democrazia appunto, o libertà, partecipazione, giustizia, amore addirittura, è particolarmente importante spiegare cosa si intende e come ci si propone di concretizzare il concetto che si esprime.
La parola democrazia è una tra le più abusate e interpretate. Tra le più manomesse. Noi pensiamo che la democrazia non sia riducibile alla sola rappresentanza e alle elezioni che la determinano (ancor più in presenza di sistemi elettorali con le caratteristiche di cui si è già detto poco sopra). Pensiamo che la democrazia non sia «giusta» di per sé. Consideriamo la democrazia un sistema, complesso e delicato, che necessita di pesi e contrappesi che tutelino lo stato di diritto, inclusi i diritti politici dei cittadini sanciti nella Costituzione e nella Dichiarazione dei diritti dell’Onu. Pensiamo che ritenerla «giusta» solo quando ci dà ragione sia un’idiozia. Pensiamo che la democrazia, tutta la democrazia nelle sue varie forme, serva per prendere decisioni quanto più condivise possibili. Perché «giusto», in questa economia, è un nonsense. Giusto per chi?
La situazione di oggi non è diversa da quella di ieri. Sul palcoscenico della politica va in scena il medesimo spettacolo, al più cambiano gli attori. Quale contributo può dare un’associazione piccola come la nostra? Risposte non ce ne sono, men che meno soluzioni salvifiche. Del resto raccontare che esistono soluzioni semplici per temi complessi è mestiere di chi ha interesse nella propaganda. Noi questo interesse non lo abbiamo. Continueremo perciò a percorrere la via della buona democrazia e ci sforzeremo di costruire cultura di cittadinanza attiva. Perché una democrazia migliore sarà possibile solo se i cittadini decideranno di volerla. Sarà possibile se, e solo se, tutti noi comprenderemo che la parola che più si avvicina a democrazia è responsabilità. Individuale innanzitutto, collettiva di conseguenza. E allora ci attiveremo concretamente, sul campo, per poter co-decidere sul destino della nostra comunità, smettendo di affidarci esclusivamente alle scelte di un ristretto esecutivo (più o meno eletto, rappresentativo e legittimato), smettendo di essere pubblico e tifoseria, scegliendo di assumerci invece la responsabilità del mondo in cui viviamo.