PRESIDENTE DI LOTTA E GOVERNO
Ha scelto una formula molto democristiana, il premier incaricato Conte, per descrivere l’orizzonte del suo nuovo impegno istituzionale: un «governo di novità». La novità non può essere lui, però, che si propone con doti da astuto trasformista come il punto di equilibrio di un possibile esecutivo — incentivato dal Quirinale — che guarderà a sinistra e non più a destra. Qualcuno potrà obiettare che dopo la lezione didascalica a Salvini al Senato e qualche mese di apprendistato, l’«avvocato del popolo» ha conquistato una sua autonomia, ma è altrettanto evidente che rimane un attore politico prossimo al Movimento 5 stelle. La sua seconda stagione, virata a sinistra, è stata voluta dai pentastellati ed è transitata per l’assenso delle reminiscenze democristiane presenti nel Pd e per un po’ di «ragione di Stato» comunista. Implicitamente è una difesa anche di quanto fatto dal governo giallo-verde a meno che Conte, allestendo un numero di illusionismo, non prenda le distanze da sé stesso, rinnegando il passato recente e la sua stessa azione. Al netto di uno stile distensivo e istituzionale, lontano dalle falsificazioni della rete e da una stagione di eterna propaganda, il giudizio su Conte sembra l’esito della fame di leader politici che l’Italia reclama da tempo.
Se questa è la premessa il «governo di novità» è in salita. In cinque giorni non si scrive un programma avveniristico e di svolta, quindi la composizione dei ministeri sarà decisiva per comprenderne l’essenza.
Si capirà, dunque, se sarà un’esperienza di traccheggiamento, per allontanare le urne e non concedere subito un match point alla Lega, o se sarà una compagine in grado di compiere scelte radicali. Le uniche insieme al fattore tempo che possono enfatizzare il macroscopico errore commesso dal leader della Lega Salvini sui tempi di questa crisi che nel lungo periodo rischia di pagare anche all’interno di un partito disciplinato ma non monolitico.
Per ora tali presupposti latitano. I forti attriti nel M5s sulla strategia (voto e governo con i dem?), il bisogno di tutelare il ruolo
del vicepremier uscente Di Maio — capo politico a rischio elisione anche per il ruolo più emancipato di Conte — ostacolano il progetto di un governo di legislatura che, se oliato a dovere, potrebbe manomettere molti delle incognite presenti sul percorso: il narcisismo disfattista di Renzi che ha in mano le chiavi di una crisi futura, le affinità elettive di Salvini, l’ambiguità a cinque stelle.
Il tribolato iter di formazione del governo non si esaurisce con le ritrosie dei due attori protagonisti e la fragilità del contesto in cui operano. Se, come scrive qualche osservatore, il baricentro del futuro governo sarà nel Centro-Sud una parte consistente della sfida è già persa. Perché il Nord è il motore economico del Paese, un mondo composito di grande imprese e piccole realtà, di artigiani e partite Iva, di operai e precari che pongono da tempo istanze mai evase. Ma il Nord è anche lo spazio del grande egoismo, dell’edonismo e della disuguaglianza sociale, della discriminazione razziale e del rancore postideologico e se queste componenti non vengono aggredite culturalmente e politicamente l’estremismo e l’insoddisfazione avanzeranno. E con loro il divario nelle preferenze elettorali.
Il Trentino sta alla finestra per capire cosa cambierà nelle relazioni con Roma. E quali prospettive avrà, se si perfezionerà, l’alleanza tra Pd e M5s che potrebbe avere una proiezione alle prossime comunali. Almeno in termini di desistenza. Certo, il governatore Fugatti rischia di dover indossare abiti di lotta (verso Roma) e di governo (in Trentino) — un anticipo si è già avuto ieri sera a Pinzolo — perché su temi come Valdastico, grandi carnivori, punti nascita, numero di anni di residenza per accedere alle politiche sociali il confronto subirà una battuta d’arresto e non avrà il contrappeso della Lega al governo che lasciava sempre aperta la strada del compromesso. E poi c’è l’immigrazione, la grande priorità del Carroccio, su cui Fugatti ha inteso sin dal principio del suo mandato dare un segnale di profonda discontinuità. È stata smantellata l’accoglienza diffusa, sono stati estinti i capitoli di spesa per le attività dei richiedenti asilo, sono stati tagliati i fondi per la cooperazione internazionale e poste le basi per ridimensionare il Centro guidato da Mario Raffaelli. Il tema-ideologia per eccellenza resta lì a separare le visioni del mondo e il Pd non potrà certo accettare di diventare il guardiano dei due decreti sicurezza firmati da Salvini o di essere il nuovo secondino dei porti. Sul fronte fiscale il quasi certo affossamento della flat tax manterrà nelle casse della Provincia 150 milioni di euro.
Se il governo nascerà — il «se» è la congiunzione chiave di questa crisi politica, moltiplicatore di ipotesi come esito di una tattica fuori controllo — si creerà un totale disallineamento con la regione. Una compagine giallorossa a Roma, una giunta (quasi) monocolore leghista a Trento, una giunta Svp-Lega a Bolzano con la Stella alpina (e la deputata autonomista Rossini) che si asterrà sul governo fiorente e un’analoga alleanza in Regione (con il sostegno esterno del Patt). La Svp sarà impegnata in un gioco di strabismo politico per riuscire a far convivere e dialogare con istanze simmetricamente opposte. Al «se» sulla costituzione del governo si aggiungeranno i «se» sulle relazioni bilaterali che rovesciano in ogni caso il quadro di riferimento delle due Province e della Regione. Alla difficile amalgama delle istanze di Pd e M5s si sommeranno quelle della Lega nostrana in una prospettiva potenzialmente esplosiva. Attrezziamoci a tempi incerti.