«Oriente Occidente» e la danza inclusiva
Il Festival Da oggi a Rovereto performer in un viaggio artistico che elimina le barriere. La direttrice artistica Lucy Bennett: «La vera sfida è culturale, basta puntare sull’estetica e su corpi perfetti. Ognuno ha un potenziale» In scena ballerini in se
Favorire l’inclusione delle persone disabili, nella danza e nella vita. È questo l’obiettivo che la compagnia inglese Stopgap Dance persegue con coraggio e ostinazione dal 1997. Composta da ballerini disabili e non, la compagnia torna al Festival Oriente Occidente di Rovereto e Trento da oggi al 4 settembre con Frippery, in italiano «fronzoli», un workshop che coinvolgerà una quarantina di performer locali in un viaggio artistico all’insegna delle differenze. Alle lezioni intensive al Centro internazionale della danza, seguirà uno spettacolo itinerante nel centro di Rovereto. «In quest’epoca di polarizzazioni – spiega la direttrice artistica Lucy Bennett – per noi è fondamentale lavorare in strada, per trasmettere il nostro messaggio anche a quella vasta fetta di pubblico che non ha l’abitudine di andare a teatro».
Maestra Bennett, cosa significa la parola «inclusione» per chi, come lei, ogni giorno si confronta con ballerini in sedia a rotelle e danzatori con sindrome di Down, autismo e diversi gradi di paralisi cerebrale?
«Per me, essere inclusivi significa dare a ciascuno l’opportunità di sviluppare il proprio potenziale. Spesso invece di fronte ai disabili vengono prospettati tanti ostacoli. La prima cosa da fare è un elenco delle barriere».
Intende le barriere architettoniche?
«Certo. Come può un ballerino in carrozzina diventare un professionista se non riesce nemmeno a entrare in palestra perché anziché la rampa o l’ascensore ci sono solo scale? La vera sfida però è culturale, visto che l’insegnamento della danza si basa ancora in maniera preponderante sull’estetica».
Cosa intende?
«Ancora oggi, in accademia, i professori – e di conseguenza gli studenti – aspirano al cosiddetto «corpo perfetto», un concetto ancora dominante. Penso che un simile approccio sia troppo limitativo, per tutti, non solo per i disabili»
Altre barriere?
«La barriera attitudinale. Se tutti intorno a te dicono che non sei capace di fare una cosa, che non puoi riuscirci, finirai per crederci. Per questo è fondamentale che i ballerini, i coreografi, gli studenti e gli insegnanti imparino a identificare il potenziale nascosto in ogni persona e si interroghino su come innestarlo armoniosamente in una performance».
Qual è la chiave per il cambiamento?
«Creare un ambiente veramente inclusivo è una responsabilità collettiva. Perciò, nello stesso momento in cui scoviamo un potenziale talento, dobbiamo chiederci quali fattori potrebbero impedirgli di diventare tale e impegnarci insieme per eliminarli».
Come nel caso di Chris Pavia, danzatore con sindrome di Down?
«Sì. Penso che la sua storia rappresenti il mio più grande successo professionale. Ha ballato con noi per dieci anni e per quasi dieci anni – come spesso accade ai ballerini disabili – è stato ignorato dalla critica. Ma non ci siamo persi d’animo e oggi, finalmente, il suo assolo «Artificial Things» ha conquistato le pagine delle più prestigiose riviste di settore».
Quali sono le difficoltà che ha dovuto affrontare lei?
«Essere una coreografa e una mamma. A inizio anno, appena rientrata dalla mia seconda maternità, sono partita per una tournée in Giappone e ho cominciato a progettare un nuovo spettacolo. Gestire il processo creativo prendendomi cura di due figli piccoli è stato più impegnativo di quanto pensassi, forse perché il tema prescelto – ovvero l’identità di genere – poteva prestare il fianco a critiche faziose. In più io e alcuni ballerini ci siamo infortunati e ammalati più volte. Pensavo che sarei rimasta tagliata fuori per sempre dal mondo della danza, ma ho tenuto duro. La danza è un sacrificio che vale sempre la pena, è anche una delle più belle possibilità di esprimersi»