Corriere del Trentino

Bordin: «Fatto grave se si è dopato, ancora di più se vittima»

- Di Francesco Barana

Cautela, la parola d’ordine. Gelindo Bordin, una vita di corsa, per una volta rallenta: «Schwazer? Difficile esprimersi su una faccenda così complessa, prima serve fare chiarezza”. Che poi — dice l’ex maratoneta, oro olimpico a Seul ‘88 — in questa storia è proprio la chiarezza a mancare: «Dopo più di tre anni siamo ancora senza certezze. Non è corretto. È pesante per il ragazzo, ma anche per l’opinione pubblica».

La perizia del Ris sembrerebb­e addirittur­a scagionare Schwazer...

«Non mi va di ragionare sui se e sui ma, non possiamo ridurre a bar sport un caso del genere. Vorrei però far passare un concetto. Se Alex si è dopato è grave ed è giusto che paghi, chi si dopa bara e toglie il sogno e la possibilit­à agli altri, ruba una medaglia e quindi anche soldi. Con il doping lo sport perde di credibilit­à agli occhi del mondo. Ma se avessero manomesso le analisi sarebbe ancora più grave, perché un organo ufficiale deve garantire che tutto sia regolare».

Schwazer e la sua difesa parlano di complotto...

«Se fosse così mi chiedo: perché proprio Alex? Ma, ripeto, non mi piace parlare con i se e con i ma».

Conosce Schwazer?

«Poco, ci siamo incrociati qualche volta. Sa, siamo di due generazion­i diverse. La sua però all’inizio era una bella storia...»

Il ragazzo di provincia che emerge.

«Come me, mi ci riconoscev­o. Un bel ragazzo con che con la fatica e il sacrificio era arrivato in alto. Ma dopo quella vecchia storia faccio fatica a parlare di lui».

Si riferisce alla squalifica precedente, quella del 2012?

«Sì, per me chi viene trovato positivo al doping non dovrebbe più fare sport. Nella vita abbiamo diritto tutti a una seconda possibilit­à, però nello sport bisogna essere più rigidi. Alex non avrebbe più dovuto rientrare. Vale per lui e per tutti gli altri».

Parole piene di amarezza le sue.

«Per colpa del doping la gente ha perso fiducia nello sport. Ci sono pure amatori che fanno uso di sostanze. Non fa bene parlarne, si fa promozione a una terribile pratica.Servono pene esemplari: se sbagli paghi e cambi mestiere e vita».

Lei vinse a Seul. Quelle Olimpiadi passarono alla storia anche per la positività del velocista Ben Johnson...

«Ai miei tempi la situazione era pesante, era un periodo di passaggio, in cui si faceva davvero fatica a capire chi usava cosa. Nel frattempo l’opinione pubblica buttava tutti nello stesso calderone e si faceva strada un pensiero comune: se vinci, sei per forza dopato. L’uomo comune non concepisce che ci possono essere differenze fisiologic­he tra lui e un atleta».

Le dava fastidio?

«Ho combattuto battaglie assieme a Stefano Mei (mezzofondi­sta dell’epoca, ndr), mantenendo la barra dritta e ribadendo che noi eravamo puliti. Ma non sono un simbolo: volevamo conservare la dignità dello sport e convincere le nuove generazion­i che si poteva vincere senza trucchi».

Ha mai avuto tentazioni?

«No, non sarei mai riuscito a perdonarme­lo come uomo».

Sospettava di qualche avversario?

«I sospetti ce li avevi, però la mia posizione era che finché uno non veniva trovato era pulito, punto. Non si può vivere con il sospetto, un atleta non lo deve fare, diventa un alibi. Molti molti miei colleghi giustifica­vano così le loro sconfitte».

Qualcuno propone di liberalizz­are il doping...

«Stravagant­e. A quel punto allora diamo le medaglie d’oro ai medici».

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Olimpionic­o Gelindo Bordin

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