«Giovani ritirati in casa, la scuola ha il compito di prevenire le patologie»
Pendenza (Presidi): agire sulla didattica personalizzata
«Più che curare le patologie, TRENTO il compito della scuola è quello di prevenirle». Paolo Pendenza, presidente dell’Associazione presidi, non si mostra stupito: i dati dell’Unità operativa di neuropsichiatria infantile rispetto ai giovani che si ritirano dalla società — in Trentino si registra un caso ogni due giorni — non colgono di sorpresa il dirigente scolastico. Anche se la preoccupazione rimane: sul modo di affrontare il fenomeno, sul ruolo della scuola in una rete di soggetti che dovranno parlarsi sempre di più. «La collaborazione con le famiglie e le strutture sanitarie è essenziale. E nei casi più complessi viene già applicata» spiega Pendenza, che promuove quindi l’appello lanciato dalla sovrintendente Viviana Sbardella e raccolto dal direttore dell’Azienda sanitaria Paolo Bordon.
Professor Pendenza, ripartiamo dai dati. Lei che con i ragazzi interagisce ogni giorno, come descrive la situazione d’oggi?
«Una delle caratteristiche dei giovani d’oggi è quella di essere più fragili. E quando si trovano a dover gestire ostacoli o difficoltà — come il periodo dell’adolescenza — non sempre riescono ad approcciarsi in modo equilibrato».
È cambiato anche il tipo di rapporto, oggi mediato dalle nuove tecnologie.
«Le nuove tecnologie portano a una virtualizzazione delle relazioni, a una maggiore chiusura in se stessi. Stare molte ore davanti al cellulare allontana dalle relazioni fisiche e dalla loro complessità».
In che senso?
«Ogni relazione è anche un po’ una sfida: la comunicazione verbale o non verbale, la vicinanza all’altro, il contatto fisico. Sono fattori che rendono il contatto complesso. Se la relazione è solo virtuale, diventa anche più semplice. Ma un’eccessiva semplicità impedisce ai ragazzi di crescere».
In questo quadro, la scuola come si inserisce?
«La scuola può essere un’opportunità per conoscere e frequentare ragazzi della propria età. Ma può diventare anche un luogo di stress: chi è abituato a gestire solo relazioni virtuali può non essere in grado di gestire le sfide e gli ostacoli che la scuola ti mette di fronte. Eppure crescere vuol dire anche superare momenti critici».
E qui nascono i problemi: c’è chi si rifugia in casa.
«A volte il meccanismo si inceppa: lo studente non trova più energia e motivazioni per andare avanti. Quando si arriva a questi livelli, è complesso intervenire. Cosa dovrebbe fare la scuola? Più che curare, la scuola deve prevenire queste patologie».
Come?
«Deve creare contesti relazionali e di apprendimento che possano accompagnare anche lo studente più fragile, in modo che non raggiunga la fase critica. Oggi si parla di scuola inclusiva: è un concetto importante, così come quello di didattica personalizzata, che tiene conto delle diversità degli studenti».
E che interviene anche nei casi più complessi.
«La collaborazione con le famiglie e le strutture mediche, nei casi più delicati, esiste. E anche l’insegnamento flessibile, che prevede nei casi estremi anche la didattica individualizzata. Persino le lezioni a casa. Certo è che l’elemento essenziale rimane la motivazione dello studente. Un elemento sul quale deve lavorare anche la scuola: un tempo si studiava perché era un dovere. Oggi il contesto è diverso e la scuola deve porsi queste priorità».