Le tracce (dimenticate) del femminismo «Il Trentino fu laboratorio nazionale»
Sociologia presenta la ricerca. Bellè: oggi il movimento non condiziona la politica
TRENTO «La più grande differenza tra il femminismo di ieri e quello di oggi? Adesso c’è una strutturale difficoltà del movimento a condizionare l’agenda politica nazionale». Così Elisa Bellè, ricercatrice del dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale si spinge a fare una riflessione sul presente con lo sguardo consapevole di chi ha dedicato gli ultimi tre anni a ricostruire la storia dell’attivismo femminista trentino. I risultati del progetto di ricerca «Femme» — di cui è stata coordinatrice — verranno presentati oggi con una giornata di studi dedicata a femminismo e memoria, con studiose del calibro di Paola Stelliferi dell’Università Roma Tre e Alessandra Gissi d e l l ’ U n i ve r s i t à di Napoli l’Orientale.
Perché il progetto considera proprio questo spartiacque 1965-1985 temporale per il femminismo?
«Il 1965 segna la nascita del collettivo Demau a Milano ed è l’anno in cui troviamo la prima traccia del movimento femminista di seconda ondata; bisogna insomma cercare in questo periodo le radici che hanno portato al movimento organizzato del 1968. Il 1985 invece segna l’anno del calo della partecipazione movimentista. Non vuol dire che il femminismo sia sparito, ma che si è istituzionalizzato, e di fatto non è più un movimento».
Quali sono state le peculiarità del femminismo trentino?
«Trento si presentava come città di frontiera e vero e proprio laboratorio di nascita del femminismo, ma, inspiegabilmente, è rimasto un luogo marginale nella narrazione che di questo movimento si è fatta. Invece il Trentino, incluse le zone delle valli, era incastonato in una rete capillare nazionale di movimenti femministi e ha fornito conoscenze e organizzazioni che sono poi confluiti nei contesti più importanti come quelli di Roma e Milano».
Quali sono i nodi tematici del progetto di ricerca?
«Sono almeno tre. Il primo indaga il rapporto di amore e odio tra il movimento femminista e il 1968; il secondo esplora gli anni Sessanta e il consolidarsi del movimento, gli anni delle battaglie e delle lotte civili, la riforma del diritto di famiglia, il femminismo che diventa un soggetto pubblico più pienamente inteso; il terzo nodo è il femminismo sindacale, che è la pagina più attiva del femminismo italiano, una sua peculiarità, se consideriamo che in tanti altri Paesi non è nemmeno esistito. Si trattava di un movimento entrato nel profondo della cultura sindacale e operaia e che, paradossalmente, si ricorda di meno».
Perché?
«Sicuramente, come tutti i fenomeni ibridi, è finito per essere un po’ una zona grigia: non era né femminismo puro (che come sappiamo era comunque un movimento radicale, geloso della propria identità), né era solo sindacato, se si considera che la cultura dell’operaismo era percepita come maschile; inoltre i sindacati tendono un po’ a spingere la storia delle donne ai margini della loro “grande storia” , così le femministe sindacaliste rimanevano un po’ in mezzo a questi due fuochi».
E ora che ne è dei movimenti femministi?
«Le donne sono tornate in piazza con il #metoo, se non ora quando, non una di meno. Studiando la storia del movimento mi ha stupito soprattutto quanto le donne riuscissero a incidere sulle decisioni politiche e come invece adesso sia disperatamente complesso se non impossibile. C’è una sensazione di impotenza delle masse democratiche. Eppure, il movimento delle donne è carsico: come i fiumi ogni tanto rientra sottoterra, sembra non ci sia, poi irrompe nuovamente nella sfera pubblica, perché è in filo che non si interrompe mai».