MALATTIA E PENSIERO
L’antropologo e psicologo Gustave Le Bon sosteneva che «il potere di una parola non dipende dal suo significato, ma dall’impatto che essa suscita. I termini del significato più confuso possiedono a volte il più grande potere». Questa intuizione si presta ad un’applicazione multipla: il campo politico come quello medico-sanitario. E ci aiuta, in una certa misura, anche a comprendere l’irrazionalità che accompagna le vicende umane, il propagarsi di suggestioni e estremismi.
Il coronavirus, osservato da questa angolazione, si può forse comprendere di più poiché si è detto che — al netto delle sue capacità di propagazione, giudicate dai virologi il cuore del problema — ha effetti letali risibili e un decorso, in pazienti non afflitti da altre patologie gravi, spesso modesto, in alcuni casi insignificante.
Eppure lo assumiamo, in tutta evidenza, come una «peste» contemporanea dove l’umanità viene spinta al suo limite estremo, sempre in bilico tra solidarietà e disintegrazione, mentre la psicologia di massa deraglia verso l’angoscia. Albert Camus, ne La peste, ha costruito una metafora del male che contiene tutti i termini del nostro dibattito odierno: la psicosi, l’allarme, l’indifferenza, la burocrazia, la confessione, l’isolamento, l’esclusione. Ma con due elementi di differenza: le morti effettive e la comunicazione (e dunque la tecnologia). Oggi la «peste» è diventata tale, non solo per l’interdipendenza dei continenti, ma con il trait d’union di un discorso pubblico che si è composto ovunque, con le sue prescrizioni, cortocircuiti e sincerità, elevando la fattura della malattia. E dalla struttura della comunicazione — prima di tutto quella istituzionale (politica e scientifica) — ne sono discese le rapide sequenze: allarme, catastrofe, allarme rientrato. Domani si torna alla normalità (almeno nella nostra regione) sperando di aver compreso l’effettiva entità del virus.
È interessante però osservarne l’impatto complessivo sulla società. Intanto si è tracciato un nuovo discrimine tra «normale» e «patologico», una linea escludente assai incerta, certificata da tamponi e geografie di residenza. Il primo e più rilevante effetto della «peste» è quello, dunque, di rafforzare il timore dell’altro, l’appestato in questo caso, perché il contagio agisce come la contaminazione culturale. Inquieta. I cittadini sinoitaliani sono quelli che hanno pagato il prezzo più alto della psicosi.
La seconda è che di fronte al grande male anche la religione è arretrata. Cresime rinviate, segni della pace sospesi, liturgie traslate, centro religiosi islamici chiusi e salat rinviata a domicilio. Da rito collettivo è diventata aspetto intimistico, non si invoca più la salvezza generalizzata. Il mondo oltre l’uomo è stato risucchiato dalle prescrizioni sanitarie anche nella sua dimensione più spirituale. Il simbolico religioso ha perso la sua forza.
Il terzo aspetto è che il coronavirus è un affare confinato al sapere scientifico, ai decaloghi da applicare. La politica stessa agisce dietro al paravento della copertura medica, invocando clemenza se l’interesse economico preme. È l’esito dell’affermazione del positivismo, del pensiero che non pensa ma che afferma la fattualità degli eventi come se esistesse un ordine cosmico oggettivo. Anche la scienza, i ricercatori e i medici — ai quali corre la gratitudine di tutti — esprimono concezioni di potere e visioni di mondo sulle quali è giusto interrogarsi. Insomma, ci manca la filosofia come antidoto alla standardizzazione e riflessione più profonda su di noi. Ci mancano, ancora, le domande.
Cosa ci resterà, dunque, di questo virus? Gilles Deleuze risponderebbe che «pensare è prestare ascolto alla vita che è completamente un’altra cosa dal pensare alla propria salute» e che «la malattia deve servire a qualcosa. Non dà il sentimento della morte, ma acuisce quello della vita». In fin dei conti, l’eredità più utile è proprio questa: trasformare il contagio in una lezione di vita collettiva.