«Più rinunce per sopravvivere»
L’alpinista sta trascorrendo la quarantena a Monaco di Baviera. «Non mi annoio. L’alpinismo mi ha formato: sono abituato a vivere negli spazi stretti di un bivacco o ad aspettare settimane al campo base». Messner confronta la situazione tra Italia e Germania: «Da noi ci si è mossi tardi, ma con severità. Non capisco la differenza nel numero di morti». E rivela: «Sto scrivendo un libro sull’alpinismo tradizionale».
Con l’arrivo del Covid-19 alpinismo e turismo d’alta quota si sono fermati su scala planetaria: quest’anno non sono stati concessi i permessi per le salite all’Everest, ma anche in Trentino-Alto Adige la montagna ha sospeso il vincolo che la lega all’uomo. La natura vive i propri spazi alleggerita della presenza antropica, e sono le persone a sentirne la mancanza. Dal canto suo Reinhold Messner sta trascorrendo il proprio periodo di quarantena a Monaco di Baviera e lo affronta attingendo al proprio bagaglio d’esperienza: «Sopravvivo bene. Nella mia storia di alpinista mi sono formato: ho imparato a vivere negli spazi ristretti di un bivacco, o a passare lunghe settimane al campo base in attesa di una scalata. Il base camp è una specie di carcere di ghiaccio e neve, ti devi impegnare per affrontare la quotidianità».
Come vive questo periodo di quarantena?
«Ho una mia struttura che mi permette di affrontare la situazione. Ogni giorno passeggio un’oretta sull’Isar, secondo quanto è concesso fare, poi mi dedico alla scrittura. Seguo anche molto le notizie, sicuramente più di prima. Non mi annoio, sono allenato: nella vita non mi sono mai circondato di cose o persone con l’idea di distrarmi».
Da cosa è dipesa la scelta di Monaco?
«Recentemente sono stato in Etiopia, dove ho portato avanti degli studi sui popoli di montagna e ho fatto alpinismo. Al rientro avevo delle conferenze in Baviera che poi sono state annullate, essendo eventi con più di mille persone. Ma ormai ero a Monaco e c’erano già problemi a tornare in Sudtirolo. In più la mia signora è del Lussemburgo e così siamo rimasti qua, per la reciproca compagnia».
Nella vita di montagna in Etiopia ha riscontrato più differenze o similitudini con il nostro territorio?
«Quando ero là il coronavirus non era ancora arrivato, ora purtroppo sì. Ma nel mio viaggio ho potuto muovermi liberamente e se la montagna è molto diversa la cultura ha tratti comuni. Le loro montagne sono vulcaniche, sono nate dal fuoco e non dall’acqua come le nostre Dolomiti, ma nel modo di vivere si riscontra questa tendenza al valore dell’autosufficienza. Non è certo una vita ricca come la nostra, ma ho avuto un’impressione positiva dei loro equilibri. È stato un viaggio importante per il nostro mu«È seo della montagna».
Quanto pesa questa quarantena sul Messner Mountain Museum?
«Il museo ora è gestito da mia figlia, ma al momento anche noi siamo fermi come tutti, lavoriamo per il futuro. Per tutti i musei questo è un periodo difficile e nel nostro caso non riceviamo aiuti come le strutture pubbliche. Dobbiamo trovare soluzioni».
Come le sembra che l’Italia stia affrontando l’emergenza, anche in confronto alla Germania?
«In Italia ci si è mossi tardi, ma si sta facendo un lavoro molto severo, il che è positivo. Qua in Germania si cerca di convivere con la malattia. Io non sono un esperto di virus, da persona comune mi sembra che la sanità in Italia, almeno al nord, sia equipaggiata per affrontare l’emergenza. Non riesco però a capire come sia possibile questa grande differenza nel numero di morti».
Il sistema organizzato in Land è funzionale?
sempre stato così, anche se forse ora servirebbe un po’ più di potere a Berlino, per garantire misure uniformi. Ma comunque le singole decisioni convergono abbastanza. Credo però che l’unico modo per risolvere davvero il problema sia smetterla con i giochetti che le varie nazioni stanno continuando a fare, bisogna rinunciare a interessi troppo particolari. Serve una vera collaborazione a livello mondiale».
Cosa sta scrivendo?
«Ho ripreso un libro iniziato circa dieci anni fa, tratta il tema dell’alpinismo tradizionale. È un’attività che finisce nel momento in cui l’uomo non prende la responsabilità delle proprie azioni su di sé e demanda la propria sicurezza alla tecnologia».
Addomesticare la montagna è diseducativo per l’uomo?
«È turismo, è un’altra cosa. Arco è un ottimo esempio e non è una scelta sbagliata: la gente può andare in mtb, camminare, fare arrampicata sportiva, godere della natura. Ma anche sull’Everest negli ultimi anni si fa turismo, perché salire su un Ottomila con l’ossigeno e gli sherpa non è alpinismo. Ci sono scelte che preparano la montagna al consumo, in maniera più o meno accettabile».
Cinquant’anni fa lei scriveva «Ritorno ai monti», auspicando un rapporto diverso tra uomo e natura. Finita la quarantena pensa che l’umanità proverà a percorrere la strada del cambiamento?
Il confino Ogni giorno passeggio sull’Isar. Nella vita non mi sono mai circondato di persone o cose per distrarmi
Modelli Ci sono scelte che preparano le vette al consumo. L’Everest con gli sherpa è turismo
MMM Il museo è fermo e noi non riceviamo aiuti pubblici. Pensiamo a soluzioni per il nostro futuro
«Credo che siamo di fronte a una crisi molto seria e forse capiremo che con 8 miliardi di persone sul pianeta la nostra sopravvivenza è legata anche a forme di rinuncia, che l’obiettivo unico del consumo porta all’autodistruzione. Mi viene da ridere quando vedo film nei quali ci sono le guerre nello spazio contro gli alieni. Basta un piccolo virus che viene dal nostro mondo per metterci in ginocchio. Con la medicina supereremo l’emergenza, ma se non cambieremo il problema tornerà in futuro. Per quanto mi riguarda, finita la quarantena tornerò sicuramente ai monti. Manca anche a me una bella passeggiata!».