LA SECESSIONE «SANITARIA»
Come al solito le immagini valgono più delle parole. I 59 giorni del lockdown in Alto Adige sono racchiusi da due foto: la prima, a inizio marzo, è il gioioso saltello di Jasmin Ladurner che si tuffa in un week-end libero da impegni istituzionali «grazie» al Coronavirus (per amor di verità, va detto che la giovane consigliera provinciale dell’Svp poi si è poi scusata con i malati e i loro familiari per la leggerezza). La seconda foto è quella scattata all’una di ieri notte: i consiglieri di maggioranza, fieri del via libera alla legge altoatesina che anticipa le riaperture rispetto al resto d’Italia, si mettono in posa davanti all’obiettivo. Peccato che, nell’entusiasmo, si siano scordati i due metri di distanza da loro stessi imposti nella norma approvata pochi minuti prima.
Non si tratta di fare ironia a buon mercato, ma di porre un dubbio: davvero in Alto Adige siamo così bravi da poter infischiarcene di un piano nazionale che prevedeva ripartenze differenziate nei territori solo dal 18 maggio in poi? E davvero valeva la pena di innescare uno scontro istituzionale — che peraltro rischia di essere un gioco delle parti, se Roma non chiede la sospensione immediata della norma — per un anticipo di pochi giorni?
L’autonomia è una cosa seria, e bene fa la giunta Kompatscher a difenderla da attacchi scomposti che spesso arrivano da chi non sa fare i compiti a casa propria. Ma pur in un giorno di legittimo e umano sollievo per il parziale ritorno alla vita normale, resta un po’ di amaro in bocca per la «secessione sanitaria» messa in atto unilateralmente a Bolzano, preceduta dall’ennesima notte dei fuochi in cui gli eredi di Eva Klotz (digerito a stento lo choc per la chiusura del confine al
Brennero, disposta in quattro e quattr’otto a inizio crisi da Sebastian Kurz) hanno rispolverato il solito Los von Rom. I dati sanitari in Alto Adige sono confortanti, ma non i migliori d’Italia e ben lontani da quelli che hanno permesso ad Austria e Germania di anticipare la «fase 2». A proposito di Germania: quando a inizio marzo l’Istituto Koch denunciò la presenza di un pericoloso focolaio in Gardena (i turisti al ritorno in patria si ammalavano come mosche) inserendo l’Alto Adige nella lista nera delle destinazioni turistiche, la prima reazione dei nostri politici fu piccata e infastidita. Dovremmo invece ringraziare i tedeschi: solo grazie a quell’allarme la stagione sciistica venne chiusa in anticipo, evitando che Ortisei diventasse la versione ladina di Alzano o Codogno.
Certo, noi siamo quelli che hanno reagito all’emergenza con la consueta generosità, grazie alla preziosa rete dei volontari (Croce rossa, Croce bianca, vigili del fuoco) e a una protezione civile rodata da esperienze dure. Ma siamo anche quelli che in un primo momento hanno lasciato medici e infermieri sprovvisti di protezioni sicure, costretti a elemosinare dentro e fuori Italia mascherine in prestito dopo aver investito dieci milioni in materiale non certificato. Siamo quelli che hanno pasticciato sul conteggio dei morti, e che hanno avvisato i familiari di una vittima cinque giorni dopo il decesso. Siamo quelli (in buona compagnia, peraltro) che hanno fatto una fatica maledetta a stare al passo con i tamponi, delegando l’autogestione delle quarantene al buon cuore di malati veri o potenziali.
Massimo rispetto per l’impegno (e le occhiaie) del presidente Arno Kompatscher, che dall’inizio della crisi ha lavorato 24 ore al giorno per affrontare la bufera, e di tutti quelli che hanno fatto miracoli per evitare il peggio. Ma siamo sicuri che presentarci al resto del Paese con l’atteggiamento del Marchese del Grillo sia in linea con l’appello alla coesione rilanciato anche ieri dal presidente Mattarella? Il laborioso Alto Adige è pronto a ripartire, e questo è un bene. Il riferimento ai protocolli sanitari nazionali inserito nella norma è un passo doveroso nella giusta direzione. Evitare passi falsi e atteggiamenti da primi della classe è altrettanto auspicabile, pensando ai quasi 300 altoatesini (ma potrebbero essere almeno il doppio secondo lo studio Istat sulla mortalità) che non sono più tra noi.