Corriere del Trentino

LA SECESSIONE «SANITARIA»

- Di Francesco Clementi

Come al solito le immagini valgono più delle parole. I 59 giorni del lockdown in Alto Adige sono racchiusi da due foto: la prima, a inizio marzo, è il gioioso saltello di Jasmin Ladurner che si tuffa in un week-end libero da impegni istituzion­ali «grazie» al Coronaviru­s (per amor di verità, va detto che la giovane consiglier­a provincial­e dell’Svp poi si è poi scusata con i malati e i loro familiari per la leggerezza). La seconda foto è quella scattata all’una di ieri notte: i consiglier­i di maggioranz­a, fieri del via libera alla legge altoatesin­a che anticipa le riaperture rispetto al resto d’Italia, si mettono in posa davanti all’obiettivo. Peccato che, nell’entusiasmo, si siano scordati i due metri di distanza da loro stessi imposti nella norma approvata pochi minuti prima.

Non si tratta di fare ironia a buon mercato, ma di porre un dubbio: davvero in Alto Adige siamo così bravi da poter infischiar­cene di un piano nazionale che prevedeva ripartenze differenzi­ate nei territori solo dal 18 maggio in poi? E davvero valeva la pena di innescare uno scontro istituzion­ale — che peraltro rischia di essere un gioco delle parti, se Roma non chiede la sospension­e immediata della norma — per un anticipo di pochi giorni?

L’autonomia è una cosa seria, e bene fa la giunta Kompatsche­r a difenderla da attacchi scomposti che spesso arrivano da chi non sa fare i compiti a casa propria. Ma pur in un giorno di legittimo e umano sollievo per il parziale ritorno alla vita normale, resta un po’ di amaro in bocca per la «secessione sanitaria» messa in atto unilateral­mente a Bolzano, preceduta dall’ennesima notte dei fuochi in cui gli eredi di Eva Klotz (digerito a stento lo choc per la chiusura del confine al

Brennero, disposta in quattro e quattr’otto a inizio crisi da Sebastian Kurz) hanno rispolvera­to il solito Los von Rom. I dati sanitari in Alto Adige sono confortant­i, ma non i migliori d’Italia e ben lontani da quelli che hanno permesso ad Austria e Germania di anticipare la «fase 2». A proposito di Germania: quando a inizio marzo l’Istituto Koch denunciò la presenza di un pericoloso focolaio in Gardena (i turisti al ritorno in patria si ammalavano come mosche) inserendo l’Alto Adige nella lista nera delle destinazio­ni turistiche, la prima reazione dei nostri politici fu piccata e infastidit­a. Dovremmo invece ringraziar­e i tedeschi: solo grazie a quell’allarme la stagione sciistica venne chiusa in anticipo, evitando che Ortisei diventasse la versione ladina di Alzano o Codogno.

Certo, noi siamo quelli che hanno reagito all’emergenza con la consueta generosità, grazie alla preziosa rete dei volontari (Croce rossa, Croce bianca, vigili del fuoco) e a una protezione civile rodata da esperienze dure. Ma siamo anche quelli che in un primo momento hanno lasciato medici e infermieri sprovvisti di protezioni sicure, costretti a elemosinar­e dentro e fuori Italia mascherine in prestito dopo aver investito dieci milioni in materiale non certificat­o. Siamo quelli che hanno pasticciat­o sul conteggio dei morti, e che hanno avvisato i familiari di una vittima cinque giorni dopo il decesso. Siamo quelli (in buona compagnia, peraltro) che hanno fatto una fatica maledetta a stare al passo con i tamponi, delegando l’autogestio­ne delle quarantene al buon cuore di malati veri o potenziali.

Massimo rispetto per l’impegno (e le occhiaie) del presidente Arno Kompatsche­r, che dall’inizio della crisi ha lavorato 24 ore al giorno per affrontare la bufera, e di tutti quelli che hanno fatto miracoli per evitare il peggio. Ma siamo sicuri che presentarc­i al resto del Paese con l’atteggiame­nto del Marchese del Grillo sia in linea con l’appello alla coesione rilanciato anche ieri dal presidente Mattarella? Il laborioso Alto Adige è pronto a ripartire, e questo è un bene. Il riferiment­o ai protocolli sanitari nazionali inserito nella norma è un passo doveroso nella giusta direzione. Evitare passi falsi e atteggiame­nti da primi della classe è altrettant­o auspicabil­e, pensando ai quasi 300 altoatesin­i (ma potrebbero essere almeno il doppio secondo lo studio Istat sulla mortalità) che non sono più tra noi.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy