Valore e sfide dell’Europa
«L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto».
Pragmatismo e visione sono stati le due fonti complementari di ispirazione del progetto europeo, il freno e l’acceleratore di un processo del tutto originale ed innovativo il cui esito finale non è ancora noto, la concretezza e l’idealismo nell’affrontare e governare un’esperienza sperimentale, graduale ed incrementale di integrazione sovranazionale andando al di là della mitologia circa il ruolo politico esclusivo degli Stati nazione come fine in se stesso.
Il nostro continente — con l’eccezione della guerra balcanica negli anni ’90 che ha avuto cause endogene riconducibili proprio al pluridecennale isolamento dell’altra Europa rispetto all’area euro-atlantica — non ha mai conosciuto un periodo di pace così lungo durante il quale non vi è stata solo assenza di conflitti armati, ma si è consentito ad ogni individuo — cittadino dell’Unione Europea — di vivere e programmare la propria vita personale e professionale in una dimensione tendenzialmente senza confini. Dopo 70 anni, un conflitto armato in Europa oggi sarebbe una guerra civile. L’Europa dei cittadini — senza magari che i cittadini stessi ne abbiano lucida consapevolezza — è la nostra realtà quotidiana.
La celebrazione odierna dell’Europe Day, proprio in virtù del fatto che la visione dell’integrazione è un processo aperto che ha conosciuto e conosce fasi di rallentamento e fasi di accelerazione, non può essere offuscata dalle tantissime difficoltà che l’Unione sta attraversando, probabilmente perché le istituzioni dell’Unione non riescono a sottrarsi responsabilmente all’invadenza del metodo intergovernativo imposto dai «signori dei trattati», ossia gli Stati membri. In proposito, occorre richiamare una concezione — risalente soprattutto agli anni ’80 e ’90 — fondata sulla circostanza per la quale gli Stati membri più grandi sperimentavano una duplice dinamica di centralizzazione verso l’Unione e, allo stesso tempo, di sviluppo del decentramento regionale interno. Si contrapponeva una «Europa delle Regioni» ad una «Europa degli Stati». In quella fase, il dialogo operativo tripolare fra Commissione, governi nazionali e Regioni e Länder sembrava molto promettente in un contesto di governance funzionale di natura complementare rispetto ai ruoli formali precisati dalle norme dei trattati.
In seguito, con maggior realismo si è parlato piuttosto di una «Europa con le Regioni» mentre oggi i sovranisti antieuropei preferiscono parlare di una «Europa dei popoli» tutta orientata a difendere i miti del passato piuttosto che ad affrontare le sfide della modernità globale. Ma, a parte le immagini ideologiche e gli slogan propagandistici, occorre riconoscere che esiste, nel contesto dell’Unione Europea, una «questione regionale», ossia un problema fondato sul fatto che le istituzioni dell’autonomia territoriale nell’ordinamento degli Stati membri svolgono importanti funzioni di governo mentre nell’ordinamento dell’Unione non esistono se non per profili strutturali e funzionali del tutto marginali e poco più che decorativi.
Si tratta, probabilmente, di una riserva di potere che gli Stati membri si garantiscono mentre si potrebbe ipotizzare che sia nell’interesse dell’Unione la definizione di un assetto nel quale si rafforza l’interazione diretta fra Commissione e Regioni e Länder. In altre parole, se le modalità di funzionamento di tanti programmi comunitari è affidata alle autonomie territoriali per un’attuazione efficiente, non sembra fuori luogo concepire per queste ultime anche un ruolo formale nella definizione di quegli stessi programmi.
La nuova Commissione presieduta da Ursula von der Layen aveva stabilito che la celebrazione odierna della Giornata dell’Europa coincidesse con l’avvio di una Conferenza sul Futuro dell’Europa che, per un periodo di due anni, con un approccio dal basso verso l’alto, trasparente, inclusivo, partecipativo ed equilibrato, riesca ad elaborare una visione circa la nuova configurazione dell’Unione negli anni futuri, affrontando i nodi fondamentali per i quali il trattato di Lisbona non prevede attualmente una soluzione idonea.
La Conferenza è la sede appropriata perché si ponga all’ordine del giorno anche la questione regionale. A questo fine, dovranno prendere l’iniziativa diretta proprio le Regioni italiane e portoghesi, i Länder austriaci e tedeschi, le Comunità Autonome spagnole, le istituzioni della devolution britannica — a partire dalla Scozia e dall’Irlanda del Nord che è stata al centro del negoziato conflittuale in vista della Brexit — e tutte quelle realtà di autonomia territoriale che ritengono che l’Unione debba avere un proprio progetto regionale che oggi è del tutto assente e che possa permettere di identificare una figura di Regione europea. Verosimilmente, un simile obiettivo richiederà un percorso volontario, ispirato a criteri di differenziazione, di sinergia responsabile con i governi nazionali e di capacità istituzionale di interagire con gli organi dell’Unione.
Le due Province autonome hanno tutte le credenziali idonee per assicurare una propria partecipazione attiva e propositiva alla Conferenza — il cui avvio è stato rinviato a causa della pandemia in corso —, eventualmente anche insieme al Land Tirol nel contesto euro-regionale, che potrebbe essere di per sé un fattore qualificante, tenuto anche conto del fatto che il Gect riposa su basi normative dell’Unione.
La Provincia autonoma di Trento, rispetto agli altri due partners, terra di origine di quell’autentico cittadino europeo che fu Alcide Degasperi, presenta tuttavia alcune lacune, non solo di natura linguistica, e questo dovrebbe indurla a fare di più e da subito per coinvolgere tutti i settori della società civile. Ad esempio, da qualche tempo il Centro di documentazione europea — frutto di una collaborazione fra Università e Provincia — ha cessato di svolgere un’importante opera di divulgazione e presentazione pubblica delle tematiche europee che una ventina di anni fa era invece frequente e qualificata. Proprio il Cde potrebbe fungere da cornice entro la quale porre le premesse per contribuire in modo consapevole e responsabile alla Conferenza, in sinergia con i due omologhi dell’Euregio e, soprattutto, con il sostegno di una pubblica opinione trentina informata e motivata. Sarebbe idealmente la benvenuta anche la presenza della Fondazione Bruno Kessler, nello spirito originario di crescita della società civile di quello che fu l’Istituto trentino di cultura.
Le celebrazioni civili — come l’odierna Giornata dell’Europa — devono sempre richiamarsi alle origini dell’evento ricordato ma devono soprattutto proiettarne nel futuro le ragioni ideali. Sarebbe il fallimento di una generazione se non riuscissimo a trasmettere ai giovani l’emozione razionale legata all’integrazione europea che — in sintonia con la democrazia costituzionale repubblicana — ha segnato la nostra vita individuale e collettiva di questi ultimi 70 anni.