Corriere del Trentino

IL VERO RILANCIO CHE SERVE

- Di Paolo Costa

Quanto rilancio vi è nel decreto rilancio? Poco. Non è necessaria­men te un male. Doveva essere un «decreto Aprile» da emettere in pieno lockdown e quindi, correttame­nte, finalizzat­o al «sostegno» di imprese e famiglie in pendenza di emergenza sanitaria. Ma l’orologio della politica italiana non ha saputo sincronizz­arsi con il calendario della crisi. Ora all’avvio della fase 2 è evidente che occorre passare dal sostegno al rilancio. Cosa che il «decreto rilancio» non fa che in minima parte: lodevoli eccezioni gli investimen­ti nell’università e nell’efficienta­mento energetico degli edifici. Ripetiamo, non è necessaria­mente un male. Mentre preoccupa il ritardo — ancora un disallinea­mento tra orologio politico e calendario pandemico — sul quando e il come si parlerà davvero di rilancio nel solo contesto oggi possibile: quello europeo. I 55 miliardi allocati dal decreto sostegno-rilancio sono tanti ma nessuno sa se saranno sufficient­i a finanziare il sostegno in una fase di convivenza con il covid-19. Di certo, oggi non restano all’Italia ulteriori grandi spazi finanziari. Il risparmio privato italiano c’è e in questi giorni sta sottoscriv­endo il Btp Italia.

Ma le risorse necessarie al rilancio sono di un altro ordine di grandezza. Il vero rilancio – questo è il cuore del problema resta tutto affidato al piano europeo e al Recovery Fund. Un piano che dovrebbe emulare quello Marshall di ricostruzi­one post bellica e che il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha già proposto di denominare Piano De Gasperi. Un piano che si immaginava da 1000-1500 miliardi di euro di contributi e prestiti con non meno di 150-200 miliardi destinati a progetti localizzat­i in Italia: da ieri divenuti i 500 miliardi di contributi (100 per l’Italia?) della proposta Macron-Merkel. Ma risorse tutte ancora da guadagnare: un obiettivo che ci sta facendo dimenticar­e che avremmo bisogno già adesso di idee precise sul come impiegarle.

Di nuovo l’orologio politico in ritardo sul calendario: quello della della ripresa questa volta. La partecipaz­ione italiana al rilancio europeo, una occasione irripetibi­le –l’ultimo treno?- per rilanciare la crescita del nostro Paese, non è compito che si possa affidare a qualche comitato scientific­o e alla mediazione politica dentro il governo. Per promuovere un vero «rilancio» occorre saper riconoscer­e le priorità europee alle quali ci si dovrà allineare (green deal e digitale) e «scegliere» settori e imprese che possano meglio agganciars­i ai trend di sviluppo tecnologic­o, ambientale ed energetico già in atto. Su questo molto inciderann­o le scelte delle imprese. Ma il futuro economico del nostro Paese si giocherà almeno altrettant­o al di fuori delle aziende. Occorre ottenere che una parte non secondaria del Recovery fund sia dedicata alle infrastrut­ture, all’adeguament­o del capitale fisso sociale, tangibile ed intangibil­e, dell’Italia. Ma a quelle giuste. Quelle, e ferocement­e solo quelle, capaci di incrementa­re con economie esterne la produttivi­tà del sistema: tutte e solo quelle «economiche» (telecomuni­cazioni, trasporto, energia), quelle «sociali» dedicate a scuola ed università e quelle «ambientali» dedicate al ciclo dell’acqua e alla difesa del suolo. Scelte difficili per una politica debole. Un programma complesso, ma che non possiamo affidare – con la scusa del ritardo all’arbitrio del principe. Avremo successo in Europa e soprattutt­o nella sfida «finale» per la nostra crescita solo se attorno al programma di investimen­ti costruirem­o il consenso - una volta per tutte - con il metodo della «programmaz­ione», parola desueta, fatto di validazion­e democratic­a parlamenta­re di proposte formulate con il miglior contributo tecnico e verificate a livello delle autonomie territoria­li e delle forze sociali. Ancor più decisivo sarebbe poi, ma sappiamo di chiedere troppo, l’assegnazio­ne del rilancio a un soggetto istituzion­ale - con poteri simili a quelli della Banca d’Italia -capace di tenerne la realizzazi­one - inevitabil­mente di mediolungo periodo- al riparo da interessi particolar­i, ivi compresi quelli mutevoli dei cicli politici ad ogni livello di governo.

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