Plexiglas, mascherine e tanta commozione: dopo 105 giorni le Rsa riaprono le porte
TRENTO Dopo 105 giorni di isolamento, ieri mattina, sul terrazzino d’ingresso della Rsa «Opera Romani» di Nomi sono apparsi due vasi alti e scuri con fiori di ortensia bianca, una pianta generosa, forte ed estremamente adattabile. Tre attributi che ben descrivono il legame vissuto con i familiari dai circa 4.500 ospiti delle case di riposo del Trentino, che ieri — dopo tre mesi trascorsi in un clima del tutto eccezionale — hanno potuto vedere i volti e udire le voci dei loro cari senza la mediazione di uno smartphone o di un computer.
Prima dell’arrivo dei familiari, atteso dal 5 marzo, ieri mattina i cancelli dell’Opera Romani — una delle Apsp trentine con più ospiti (174)
— si sono aperti alle 8.47 per far entrare il furgoncino di una fioreria. C’era una consegna a domicilio da fare: si trattava di due mazzi di fiori di ortensia. Poco dopo dalle scale scende il direttore dell’Apsp, Livio Dal Bosco. «I fiori sono un segno di accoglienza e di rinascita per le nostre strutture che dopo mesi di grande battaglia contro il coronavirus, finalmente riaprono e riattivano contatti che fino a ieri erano stati tenuti vivi soltanto con le tecnologie — chiosa il direttore — Le persone adesso possono vedersi e parlarsi, speriamo che sia il segno della sconfitta dell’epidemia». Alcuni tratti irreali — all’insegna della regola cardine «zero contatto fisico» — continuano però a rimanere.
Quando infatti arriva il primo familiare — alle 9.05 — la procedura di ingresso si rivela rigida e minuziosa, con dei precisi obblighi da rispettare indicati su dei cartelli di carta. Il primo, a cui ormai siamo abituati, è quello di lavarsi le mani tramite il distributore di gel disinfettante posizionato appena fuori la prima porta scorrevole in vetro. Dopodiché, una volta entrati nell’area che funge da filtro tra l’ingresso e il resto della struttura, si è chiamati a compilare una scheda di valutazione in cui si dichiara di non presentare sintomi riconducibili all’infezione da Covid. Per ultimo, posata la penna (igienizzata tra una visita e l’altra), ci si sottopone al controllo della telecamera termoscanner, che misura la temperatura corporea con la rilevazione a polso e verifica se la mascherina sia indossata correttamente. Se tutto è in regola scatta poi automaticamente la serratura della seconda porta scorrevole in vetro che dà accesso alla sala adibita all’incontro.
«È la nostra cintura di sicurezza, che non ti serve per un milione di volte, ma la milionesima volta ti può essere utile — spiega Livio Dal Bosco — Abbiamo messo in atto tutte le misure di sicurezza, ma senza perdere di vista gli aspetti di umanizzazione dell’esperienza». Un’esperienza che non è più mediata dallo scherma di un dispositivo elettronico, ma da un interfono e un pannello di vetro. Il familiare da una parte e l’ospite, con un’animatrice esperta in psicologia, dall’altra. Visite che sono andate avanti fino alle 5 del pomeriggio, una ogni mezz’ora. Manca il contatto fisico, ma l’emozione, all’uscita dei familiari, è palpabile. «È stata una cosa bellissima, un’emozione grandissima — racconta al telefono, dopo la visita della cugina, Mariapia Turri, una delle ospiti — In questi mesi ci siamo sempre sentiti per telefono, ma averla vicina è diverso». Vicini ma separati, un vincolo che si protrarrà ancora per molti mesi. «Nelle condizioni attuali è il massimo sforzo che possiamo fare e la situazione rimarrà questa almeno per tutta l’estate — fa sapere Francesca Parolari, presidente dell’Unione provinciale istituzioni per l’assistenza (Upipa) — Fare altrimenti significherebbe essere degli incoscienti sia nei confronti degli ospiti che nei nostri confronti».
Il dirigente Riattiviamo i contatti finora garantiti dalla tecnologia