Aime: la diversità culturale si impara a scuola
«Una convivenza pacifica e proficua tra culture diverse nasce a scuola». Così Marco Aime, professore di antropologia all’università di Torino e autore di saggi, narrativa e favole per ragazzi, riflette sulla questione complessa e irrisolta della diversità culturale, nel suo nuovo saggio Pensare altrimenti. Antropologia in dieci parole (i tipi di Add?. Aime presenta il libro oggi alle 18.30 alla Bottega della Capra felice, in piazza Venezia a Trento.
Professore c’è bisogno della diversità culturale?
«Si vive di diversità. Molto spesso pensiamo di essere uguali, ma scopriamo di essere profondamente diversi. Poi arriva l’occasione dell’incontro e ci troviamo più simili di quello che credevamo».
Come si convive con le differenze?
«In questo momento storico bisogna educare alla diversità. E’ la scuola, una delle istituzioni più maltrattate d’Italia, che gioca un ruolo centrale. E’ dove si crea l’idea di comunità o di cittadinanza. La mia generazione è andata a scuola in classi in cui eravamo tutti bianchi, tutti italiani, cattolici. Avevamo l’idea di un paese “mono-etnico” e “monoculturale”. I bambini di oggi sono ormai abituati a pensare che gli italiani siano un popolo multiforme: sarà sempre più consueto, per loro, partire dall’idea che la normalità è la diversità»
Come sarà il futuro?
«Per immaginarci il futuro facciamo un salto indietro nel passato: la storia è fatta di mescolamenti e migrazioni. Noi siamo il prodotto di tanti geni diversi che si sono mescolati. Persino i nostri cibi tipici sono frutto di mescolanza: la pizza è araba, gli spaghetti cinesi, il pomodoro americano. Pascal diceva che i problemi dell’uomo derivano dal fatto che non è capace di stare seduto nella sua stanza. È proprio così, noi ci siamo mossi da sempre, non riusciamo a stare fermi».
Che impatto ha avuto l’avanzamento scientifico sul credere umano?
«Se ci pensiamo, anche la
Marco Aime, professore di antropologia all’Università di Torino e autore di saggi, narrativa e favole fiducia estrema nella scienza è un modo di credere. Stephen Hawking aveva un’assoluta fede nella capacità umana di andare a colonizzare altri pianeti, il che avrebbe potenziato l’umanità stessa. Tutti abbiamo bisogno di credere in qualcosa».
Quindi l’antropologia non ha mai incontrato popoli non credenti?
«Popolazioni più o meno religiose, ma credere sembra rispondere a un bisogno umano universale di darsi certe risposte».
Natura. Da un lato ne abbiamo bisogno, dall’altro la distruggiamo. Perché?
«Il rapporto con la natura è influenzato oggi dal modello occidentale che si è espanso a livello planetario. Pensiamo alla Bibbia: ad Adamo gli si dice chiaramente che sarà padrone della natura. Questo rispecchia la concezione di una natura al nostro servizio. Non solo: la natura è concepita come qualcosa di esterno a noi. Ma noi non siamo altro che l’ambiente che abitiamo».