LE TANTE PARTITE DELL’A22
Entro la fine dell’anno salvo proroghe, escluse e proprio per questo probabili anche per avviare la nuova società, il destino di AutoBrennero dovrebbe essere compiuto. Sarà scelta, cioè, l’opzione per proseguire nella gestione del delicato corridoio che collega, attraverso il Brennero, il Nord Europa con il Mediterraneo. Per i territori che si affacciano lungo il suo eterogeneo percorso (Trentino-Alto Adige, Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) l’A22 presenta due polmoni di interesse: quello economico-finanziario perché la società di via Berlino genera 500 milioni di ricavi l’anno (275 milioni di utili redistribuiti negli ultimi sei anni) e movimenta in opere pubbliche cifre considerevoli (il nuovo Piano già approvato al Cipe vale oltre 4 miliardi), confermandosi un imprescindibile volano economico; quello ambientale perché la sua regolamentazione consente di governare un asse strategico e di declinare lungo la rotta i concetti di sostenibilità, sviluppo, tempo.
Da questi pochi dettagli si comprende il rilievo (geo)politico, economico e sociale — quest’ultimo piano spesso dimenticato — di AutoBrennero e la folla di interessi, spesso confliggenti, intorno al tema della sua concessione, scaduta da sei anni.
Gli ultimi eventi sembrano spingere la trattativa nel versante voluto dallo Stato attraverso le sue articolazioni ministeriali.
Quello di una società in house — priva di partner privati — in cui, secondo l’attuale configurazione, Roma avrà in mano la conduzione dell’arteria. Senza artifici retorici, alcuni dei soci pubblici hanno parlato di «statalizzazione» perché il Comitato di indirizzo e coordinamento (Cic) della nuova società sarebbe numericamente in mano al governo e si esprimerebbe, con possibilità di veto, su tutte le opere con valore superiore ai 5 milioni di euro. La governance prevista, fissando l’epicentro nella capitale, rischierebbe anche di allentare l’amministrazione unitaria dell’asse affidando alle capacità negoziali dei singoli territori un peso specifico non trascurabile. Il Landeshauptmann altoatesino Arno Kompatscher, che sostiene questa ipotesi con la ministra ai trasporti De Micheli, sta lavorando ad una proposta emendativa che attenui le severe condizioni dell’Accordo di cooperazione definito dagli ex ministri Delrio (Pd) e Toninelli (M5s). In quale direzione? Difficile che Roma rinunci all’indicazione del presidente perché l’«in-house» prevede che lo Stato eserciti un potere di controllo analogo a quello che eserciterebbe se fosse lui in prima persona a gestire la società. Potrebbero essere alleviate le funzioni del Cic, mantenendo la supervisione degli indirizzi (un po’ come avviene oggi per il Piano economicofinanziario con il ministero) ma eliminando il controllo capillare degli investimenti. Un guinzaglio allentato per lasciare ai territori un margine di governo sugli interventi da realizzare.
La società in-house, che garantirà una concessione trentennale, necessita però di un passaggio a monte assai delicato: l’estromissione dei soci privati (Serenissima, Società italiana per le condotte d’acqua, Banco popolare società cooperativa e Infrastrutture Cis) che detengono il 14,1575% delle azioni. Avverrà con una norma nella legge di bilancio, da approvare entro il 29 dicembre, che li liquiderà verosimilmente al prezzo dettato dalla Corte dei Conti (70 milioni). Il contenzioso è già scritto, non il suo esito. Bloccherà l’avvio della nuova società e quindi determinerà paradossalmente una nuova proroga? Oppure schiuderà un iter che si concluderà con la convalida della norma o con un risarcimento che magari approssimerà i soci privati alla loro richiesta economica (160 milioni), sanando in parte l’«esproprio»? I giuristi del ministero e della Provincia autonoma di Bolzano propendono per la seconda conclusione, ma non cancellano l’alea che accompagnerà questa transizione societaria.
E la proroga? Ufficialmente rimane in campo come orizzonte di discussione perché il governatore trentino Fugatti e alcuni soci del sud hanno chiesto alla ministra di interloquire con il commissario europeo Gentiloni prima di rinunciare poiché poco convinti dalla lettera di diniego inviata dal vicedirettore della Direzione generale del mercato interno della Commissione europea, Hubert Gams. Fugatti ha ricordato che «A22 merita un’interlocuzione politica di alto livello», facendo intendere che non può essere liquidata da un mandarino di palazzo. Ma dietro c’è anche e soprattutto un risvolto politico: l’esponente leghista vuole che il Pd (De Micheli-Gentiloni) s’intesti la responsabilità del no alla proroga (di dieci anni, ma riducibili anche a quattro) che garantirebbe di partire subito con gli interventi del
Piano economico-finanziario. A maggior ragione dopo che l’ex ministro prodiano Giulio Santagata, che nel cda di A22 siede per conto della Provincia di Modena, ha ricordato nell’ultima riunione del board come il governo abbia prorogato di 15 anni le concessioni demaniali marittime (legge 145 del 2018) senza passare da Bruxelles. Tradotto: non è l’Unione europea ostile alla soluzione, ma il governo italiano.
Per imprimere un’accelerazione conclusiva al dibattito aperto da sei anni, la ministra De Micheli aveva dettato pochi giorni fa anche il suo diktat: o la società in house o la gara. Ma l’indizione di un bando di gara per la concessione di A22 sembra solo uno strumento di pressione nonostante alcuni soci pubblici ammettano, nei corridoi, di valutarla praticabile se le condizioni dell’Accordo di cooperazione non miglioreranno. Perché? Lo Stato perderebbe gli 800 milioni del Fondo ferrovia e dovrebbe comporre un bando più generoso nelle previsioni di utili che non quello previsto per la società in house dove nessun profitto sarà redistribuito per vent’anni. Per AutoBrennero, che pure avrebbe le sue chance, il rischio è di veder sfuggire il controllo dell’asse autostradale e di subire una netta riduzione degli investimenti con una compressione dell’indotto; inoltre alcuni suoi soci (Bolzano soprattutto, con Trento a rimorchio) si sono spesi dal 2014 per la concessione e non ottenerla sarebbe un vulnus politico.
Alla fine si dovrà, insomma, individuare un patteggiamento che non sia la statalizzazione e nemmeno la conservazione dello status quo. Una revisione dell’architettura, possibilmente di alto profilo, dove lo scontro tra centro (Roma) e periferia (i territori solcati da A22) sia attenuato e dove tutti possano uscirne vincitori, o quantomeno non sconfitti.