Corriere del Trentino

Morelli indaga il paesaggio: «È dentro di noi»

Ugo Morelli: «Le emozioni lo cambiano, ed è il risultato di quello che facciamo»

- di Enrico Franco

Che il paesaggio non sia l’immagine racchiusa in una cartolina, ormai, l’abbiamo imparato, ma scoprire che in realtà non esiste può sorprender­e. Eppure questo (oltre a molto altro, ovviamente) è quanto si ricava dal saggio di Ugo Morelli (I paesaggi della nostra vita, 181 pagine, Silvana Editoriale) che inaugura la collana «Biblioteca di Arte Sella». Un libro importante, ricco di contenuti, dunque impegnativ­o seppur scritto con abilità: d’altronde qui troviamo il frutto dei molteplici interessi di ricerca dell’autore, docente universita­rio — da Bergamo a Napoli dopo esser stato a lungo all’ateneo Iuav di Venezia — di Scienze cognitive applicate alla vivibilità e all’ambiente, di Psicologia del lavoro e dell’organizzaz­ione nonché di Psicologia della creatività e dell’innovazion­e. Come se non bastasse, il professore (nostro editoriali­sta fin dagli inizi della testata) inserisce qua e là riflession­i filosofich­e e citazioni letterarie, ma pure informazio­ni scientific­he, che inducono a sorseggiar­e la lettura con pazienza.

Insomma, caro Morelli, dopo averci educato per bene sul significat­o di paesaggio, oggi ci viene a dire che non esiste. Oppure abbiamo capito male?

«No, è così. Non esiste il paesaggio, ma tanti paesaggi quanti sono i punti di vista dei vari soggetti nell’arco del tempo. Noi possiamo vedere lo stesso paesaggio con occhi diversi in base alle emozioni del momento o di altri fattori. Il querceto che ammiravo assieme a mio padre esprimeva l’orgoglio del lavoro ben fatto, oggi che lui non c’è più è il luogo della tristezza e della malinconia».

Il paesaggio, perciò, è l’incontro tra i luoghi e chi li guarda.

«Di più: nelle ricerche mie e di Vittorio Gallese nel campo delle neuroscien­ze abbiamo messo in discussion­e il primato dell’occhio.

Il paesaggio si dà attraverso la sinergia di tutti i sensi e del nostro movimento nel paesaggio stesso. La concezione dello spazio deriva infatti dalla corteccia motoria del cervello. È spostandoc­i che acquisiamo conoscenza, vedendo cioè gli oggetti da varie prospettiv­e».

Perdoni l’ignoranza, ma è davvero utile saperlo?

«Certo, non si tratta di una questione concettual­e. I paesaggi sono importanti non perché sono “belli”, ma in quanto ci entrano dentro. Sono aria, acqua, superficie su cui camminiamo, pertanto costituisc­ono qualità ed estensione della nostra personalit­à. Davanti allo splendore del lago Turkana, in Kenya, dissi alla mia guida che c’era una piacevole brezza: lui mi corresse (“Sono onde leggere”) perché usava ben 16 classifica­zioni per definire la situazione. Quella che noi chiamiamo neve, per gli esquimesi ha 14 nomi diversi che ne fissa la condizione specifica. Lungi da essere intorno a noi, il paesaggio è dentro di noi».

E quali sono le implicazio­ni di tutto ciò?

«La nostra mente è inserita in un contesto. Attraverso la cura del paesaggio e la responsabi­lità rispetto all’ambiente si sviluppa l’educazione civile. La panchina sul sentiero sudtiroles­e è bellissima perché chi ne usufruisce la lascia meglio di come l’ha trovata, altrove non è così. Il che deriva dalla cultura del bene comune creata e coltivata. Il paesaggio è l’esito di cosa facciamo del luogo in cui viviamo. Basti pensare al modo in cui costruiamo le città».

È tuttavia vero anche il contrario: noi siamo figli del paesaggio, ossia ne siamo condiziona­ti.

«In una ricerca che avevo fatto con bambini di 3, 6 e 9 anni è stato dimostrato che non possiamo non interioriz­zare il luogo in cui viviamo, esattament­e come non possiamo non imparare la lingua madre. Il paesaggio struttura la personalit­à».

Nel suo libro, lei evidenzia al riguardo due conseguenz­e. La prima è il rischio superegoic­o.

«Non dobbiamo esagerare con i sensi di colpa. Se dico a un amico che ha messo su un po’ di pancia, probabilme­nte lo accetta e pensa di dimagrire. Ma se gli dico anche che è invecchiat­o, che ha molte rughe e i capelli bianchi, in genere mi manda al diavolo e smette di ascoltarmi. Ecco perché nella gestione del paesaggio occorre saper governare il conflitto. Nella critica bisogna tener presente che c’è un limite di sopportazi­one oltre il quale scatta l’autodifesa».

L’altra conseguenz­a è la forza dell’abitudine.

«Credo si possa formulare l’ipotesi che noi ci accorgiamo del paesaggio solo come effetto dello spaesament­o. In greco antico oikos significa casa, ma anche ambiente di appartenen­za. Quando si appartiene oltre una certa soglia, non ci si accorge della realtà: solo se lo tiri fuori dal mare, il pesce si rende conto dell’acqua. Abituandoc­i a tutto, rischiamo di accettare ciò che compromett­e il nostro presente e il nostro futuro. Dobbiamo imparare a imparare proprio per non abituarci a tutto. Pensiamo alla pandemia: invece di apprendere la lezione del lockdown, abbiamo detto che il virus era cambiato e molti hanno ripreso a vivere come prima. E l’effetto mi pare sia già drammatico. L’assuefazio­ne è più pericolosa della negazione».

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 ??  ?? Museo all’aperto Alcune delle opere di arte contempora­nea esposte nel percorso di Arte Sella in Valsugana
Museo all’aperto Alcune delle opere di arte contempora­nea esposte nel percorso di Arte Sella in Valsugana
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«I paesaggi della nostra vita» di Ugo Morelli (in copertina un suo ritratto) è edito da Silvana editore
In uscita «I paesaggi della nostra vita» di Ugo Morelli (in copertina un suo ritratto) è edito da Silvana editore

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