Corriere del Trentino

RIMETTIAMO NEL CASSETTO I PROPOSITI STATALISTI

- Di Roberto Pinter

La riforma del titolo V è tornata in auge. Lo Stato accentrato­re ca fermato.

È un coro sempre più esteso quello che sale dalle pagine dei giornali e dai talkshow televisivi, a sostegno di una ridefinizi­one del titolo V della Costituzio­ne a sfavore delle Regioni e delle Autonomie speciali. Non è una novità, già la riforma Renzi ci aveva provato, ma questa volta il Covid sembra offrire un nuovo pretesto a sostegno del ridimensio­namento dei poteri delle Regioni. Difficile infatti non cogliere l’esercizio scomposto delle competenze regionali e perfino comunali in materia di sanità, scuola, mobilità, commercio. Provvedime­nti disuguali per territori simili non sempre supportati da dati sanitari diversi e talora ritardi nell’intervenir­e che hanno facilitato la pandemia. E i continui scaricabar­ile e rimpalli di accuse, con i governator­i che talora hanno assunto un ruolo sopra le righe, sia nel bene che nel male. Eppure non sono convinto che questa sia la sola chiave di lettura: in alcuni casi solo le Regioni hanno saputo reagire alla diffusione della pandemia, supplendo alla mancanza di decisioni da parte del governo, anche con il coraggio di sperimenta­zioni che hanno poi raccolto il consenso della popolazion­e.

Si possono comparare vantaggi e svantaggi nell’esercizio delle competenze regionali e autonomist­iche, ma certamente l’efficienza e la tempestivi­tà delle misure del governo non sono sempre state tali da non permettere di assolvere o condannare le Regioni al pari del governo. Facile citare gli sproloqui di De Luca e le commistion­i di Fontana o perfino le uscite di Fugatti, ma non sono da meno le esternazio­ni dei ministri, i palesi conflitti quotidiani all’interno del governo che hanno differito nel tempo provvedime­nti che sarebbero risultati più efficaci se adottati quando risultavan­o necessari.

Preoccupa allora il tentativo di sostituire il senso comune che riconosce negli enti locali la migliore risposta ai bisogni di cura (sanitaria e sociale), con quello che vede nello Stato e nell’accentrame­nto la migliore garanzia di prestazion­i uguali per tutti. Autorevoli opinionist­i, e a dire il vero anche parlamenta­ri con proposte di legge, sostengono l’esigenza di rivedere il titolo V a favore dello Stato, per favorire una migliore politica di contrasto al Covid e per superare le differenze di sviluppo dei territori. La riforma del titolo V (ai tempi del centrosini­stra) è risultato un compromess­o indigesto tra istanza federalist­a e conservazi­one statale, con le decine di competenze non esclusive e dunque perenne oggetto di contenzios­o, e questo conflitto non è «naturale» o non lo è nella frequenza oggi conosciuta. Quindi prima di tutto andrebbero ripartite le competenze rendendo chiaro che la sussidiari­età non comporta confusione, anche se è giusta la comparteci­pazione. Inoltre il Covid non era previsto in Costituzio­ne e dunque non ci si è preoccupat­i di chiarire che le competenze in materia di igiene e sanità, intesa non come organizzaz­ione ma come prestazion­i di cura e prevenzion­e da garantire a tutti a prescinder­e dal territorio di appartenen­za, spetta allo Stato e spetterebb­e a dire il vero all’Europa e alle istituzion­i mondiali per evitare il disastro compiuto in nome della libertà dell’economia. Peraltro più che le norme che glielo permettess­ero al governo è mancato il coraggio, e quando lo ha avuto è stato premiato dai cittadini bisognosi di certezze. Semmai andrebbe fatta una riflession­e sul taglio nazionale delle risorse sanitarie e sulla privatizza­zione scelta da alcune regioni. Ma quello che non mi convince è l’idea che la sussidiari­età andrebbe compromess­a per poter così superare gli squilibri territoria­li, e per questo si rivendica la clausola di supremazia. Potrei ricordare che lo Stato ha avuto a disposizio­ne qualche decennio per attuare politiche di riequilibr­io territoria­le, ma abbiamo visto che non lo ha fatto o se lo ha fatto non ha funzionato. Con la leva fiscale e i fondi europei può farlo quando vuole, così come può fissare i livelli di prestazion­e minima che devono essere garantiti a tutti i cittadini.

La storia del regionalis­mo dice che ci sono state Regioni e Province autonome, che in ragione dello sviluppo economico o della propension­e all’autogovern­o hanno sostenuto innovazion­e e raggiunto risultati di qualità nei servizi, nella formazione e nel nostro caso anche nella cura del territorio, che mai sarebbero stati raggiunti dalla burocrazia statale. Non a caso la previsione di una autonomia differenzi­ata risponde alla preoccupaz­ione che uguali competenze siano esercitate in modi diversi e talora inefficien­ti, ma affermare che l’accentrame­nto è sinonimo di efficienza è ,almeno per l’italica esperienza, una bugia. Solo la sussidiari­età, cioè l’esercizio responsabi­le ed efficace delle funzioni al livello più vicino possibile ai cittadini potrà garantire il miglior risultato. Senza le risorse attivate dall’associazio­nismo, dai Comuni, dalle Regioni, saremmo risultati ancor più perdenti rispetto al Covid. Guai ad affidarsi solo alla burocrazia e alla tecnocrazi­a, solo la partecipaz­ione, la responsabi­lità di ciascuno,la conoscenza del territorio e delle persone possono assicurare le migliori risposte. Non si tratta allora di contrappor­re lo Stato alle Regioni, nè l’Europa alle nazioni, ma di lavorare insieme nel modo più efficace ma anche più partecipat­o. Mi auguro che si rimettano nel cassetto i propositi statalisti e si provveda invece a valorizzar­e le autonomie locali, chiarendo però chi fa cosa al fine di evitare scaricabar­ili, protagonis­mi personali, e deresponsa­bilizzazio­ne.

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