«Mi colpiva e volevo che restasse»
La storia di Vittoria, picchiata per anni dal marito. «Mia figlia lo ha denunciato»
Oggi è una donna fortunata, racconta Vittoria. Ha superato gli anni bui delle violenze, gli insulti, l’annichilimento continuo. Maltrattata dall’ex marito, condannato per le violenze domestiche, Vittoria ha ricostruito la sua vita e racconta le difficoltà di un percorso che l’ha portata ad acquisire maggiore consapevolezza. Tutto è partito dalla denuncia della figlia.
Inizia oggi la prima di una serie di interviste che anticipano la Giornata contro la violenza sulle donne. Grazie al supporto del Centro antiviolenza di Trento racconteremo il percorso di tre donne che hanno ricostruito la propria vita dopo i maltrattamenti. Per svelare ciò che accade oltre e dopo la cronaca, gli arresti, i processi. Verso le nuove vite.
Persino in estate pantaloni
TRENTO e maniche lunghe. Lividi blu, violacei, rosati, guariti o appena inflitti cospargevano come stimmate gambe e braccia che andavano occultate dal frivolo giudizio del paese, così facile e così distopico. Soltanto una volta, nella foga delle botte, lui s’è sbagliato, colpendole il volto. Un errore per chi costruisce al millimetro un’immagine di sé ben diversa dall’indole violenta sfogata nella verità del privato. Per coprire quell’occhio tumefatto, Vittoria (il nome è di fantasia) s’è presentata al lavoro con occhiali scuri. «Ma non c’era luce e una collega mi ha fatto un paio di domande», ricorda oggi. La risposta è stata automatica, robotica: «Sono caduta». Fine. Parole che tuttavia nascondevano una richiesta d’aiuto, rimasta a lungo inevasa. Insegnante e impegnata nel sociale, oggi Vittoria ripete d’essere «una donna fortunata». Lo è perché il percorso ormai concluso con il Centro antiviolenza di Trento le ha consentito di riassemblare brandelli di un’esistenza violata da un ex marito che ha maltrattato lei e la figlia. «Non è stato facile, ma ce l’ho fatta», dice oggi. Sì, ce l’ha fatta anche a zittire quel senso di colpa che sussurra subdolamente nelle orecchie delle vittime.
Vittoria, partiamo da metà strada. Ossia da quando il suo ex compagno è stato denunciato.
«Nella mia storia non c’è una data che ho deciso io. È stato il giudice del tribunale dei minori che ha mandato via quest’uomo, padre del mio secondo figlio. Le violenze continuavano e mia figlia, allora sedicenne, ha avuto la forza di andare dai carabinieri a denunciarlo. Era una sera tardi e il maresciallo, non lo dimenticherò mai, alle 2 di notte mi ha chiamata. “Venga che le devo parlare perché è stata qui sua figlia”. Ho capito subito e da quel momento è partita la denuncia e sono partite le pratiche con il tribunale dei minori. Lui ha avuto l’allontanamento dalla famiglia ma non se n’è andato subito per cui per il primo mese e mezzo mia figlia è stata affidata alla mia famiglia d’origine e io ho continuato a vivere — se così si può dire, perché era un inferno di botte — con lui e nostro figlio in casa. In quei mesi era una bestia finché se n’è andato. Non so perché ma lo imploravo di non andare, ero aggrappata alle sue caviglie. Lui mi ha dato un calcio in faccia ed è uscito. Ancora oggi mi chiedo perché lo trattenessi, desideravo con tutta me stessa che se ne andasse. Ma la mia paura, rielaborando questa violenza, era d’essere un fallimento per la società. Ora, mi chiedevo, cosa penseranno di me?».
Sua figlia subiva violenze?
«Sì, tante. Fisiche e psicologiche. Tante botte e insulti. Ma non ha mai alzato le mani sul figlio maschio, il suo figlio naturale. Per quale ragione? Perché era roba sua. Nei miei confronti, da vero manipolatore, tutto è cominciato con l’annichilimento: mi faceva sentire meno di niente. “Non vali niente”; “sei una pezza da piedi”; “sei sola”; “non hai nessuno”. Sono arrivata a pensare che avesse ragione. Poi era abile, non mi picchiava mai in faccia. Solo una volta mi ha sbattuta contro il muro e sono finita contro un mobile».
Qualcuno ha capito?
«Una mia collega mi ha chiesto cosa facessi con gli occhiali addosso. Ha capito e mi ha chiesto cosa fosse successo. Io però ho risposto con la classica frase: “Sono caduta su uno spigolo”. Per tante, tantissime volte, troppe, ho nascosto i lividi. E ho sbagliato. Ma per me era il secondo matrimonio, il secondo fallimento davanti alla mia famiglia che non aveva accettato nemmeno la prima separazione. E in un paesino dove le donne divorziate sono delle poco di buono è un incubo che riaccada».
Ricorda il primo episodio di violenza?
«C’è stata una lite fra noi e i genitori. Lui ha preso sua madre e l’ha scaraventata contro il muro con una violenza inaudita. Il padre l’ha rincorso, siamo scappati. In quel gesto avevo letto un modo per difendermi. “Va contro sua madre per me”, mi dissi. Invece non era così. Nel muro dieci anni dopo ci sono finita io».
Oltre ai maltrattamenti, riconosciuti dal tribunale che ha condannato il suo ex marito, ha dovuto anche difendersi da chi non l’ha creduta. Quanto l’ha ferita sentirsi colpita dalle istituzioni?
«Il servizio sociale non mi credette, malgrado la denuncia e le parole di mia figlia, e per mesi ho temuto che venisse messa in dubbio la mia responsabilità genitoriale. Questo perché lui, da bravo manipolatore, dava un immagine di sé rispettabile. Accadeva spesso, dopo le botte, che mi obbligasse a uscire a fare la spesa insieme, fingendo che tutto andasse bene. “È un uomo ottimo”, scrisse quell’assistente sociale nella relazione. Lì per lì, sentendo quelle parole, non riuscivo a replicare, provavo un forte senso di rabbia perché sapevo come stavano le cose».
L’ennesima ingiustizia subita. Ma è riuscita a superare anche quella.
«Sì, perché ce la si può fare. Affidandosi a dei professionisti. Spesso ci si aspetta grandi cose dalle persone vicine, ma è più complicato e si rischia solo d’essere delusi. Il mio percorso al Centro antiviolenza è stato anche difficile perché ho imparato a rielaborare ogni cosa, ma ce l’ho fatta, ce l’abbiamo fatta».