Corriere del Trentino

IL MODELLO AMERICANO

- di Alessandro Quattrone

La scienza progredisc­e grazie all’uso di modelli, che sono in pratica uno specchio semplifica­to di come pensiamo funzioni la realtà. Quando un modello riesce a riprodurla bene, senza troppi scarti, allora lo usiamo per provare a capire di più sul pezzo di realtà esaminato, e magari a prevederne il futuro. Questa premessa per introdurre uno studio appena uscito sulla pandemia, che farà la differenza nel paese, gli Stati Uniti, in cui è stato realizzato. Il modello, riportato dalla rivista Nature, si basa su dati di localizzaz­ione spaziale molto precisi e ad intervalli temporali di un’ora per quasi cento milioni di cittadini che vivono nelle dieci aree metropolit­ane più popolose della nazione, nel periodo che va dall’8 marzo al 9 maggio.

Com’è possibile avere informazio­ni di movimento così precise? Lo è, se i dati te li forniscono Google e SafeGraph, per di più in formato anonimizza­to e quindi esenti da problemi di privacy. Google li ottiene legalmente da chiunque abbia l’app Google Maps, SafeGraph tramite un procedimen­to più complicato, che coinvolge l’intelligen­za artificial­e. Entrambe le aziende, si sa, normalment­e vendono questi dati e ora li hanno donati al gruppo di epidemiolo­gi.

Iquali hanno aggiunto al cocktail pochi, semplici ingredient­i. Uno è la divisione degli Stati Uniti in unità territoria­li chiamati «census block group» (delle specie di frazioni, o di quartieri, comunali) che al massimo comprendon­o tremila persone, e in ciascuna unità hanno ricostruit­o il network di spostament­i verso e da punti di interesse, ovvero luoghi dove si concentran­o individui per i più disparati motivi. Un altro ingredient­e è una rappresent­azione matematica di epidemie chiamata Seir — acronimo per Suscettibi­li, esposti, infettati e rimossi — quindi quattro scatole virtuali in cui mettere gli individui positivi al virus, dove gli esposti sono coloro che lo stanno incubando mentre i rimossi sono i guariti. Questo scheletro è il modello, che infine è stato calibrato (si dice così) usando l’ultimo ingredient­e, i dati sui casi di contagio per giorno e per area metropolit­ana riportati da un giornale, il New York Times.

Difficile? Non così tanto, credete. Forse grazie alla finezza e alla completezz­a del profilo di geolocaliz­zazione — chi ormai non porta con sé un telefono cellulare — il cocktail riproduce con precisione eccellente i casi osservati in tutte le dieci aree metropolit­ane negli Stati Uniti durante i due mesi di analisi dei dati. La cosa è sorprenden­te, se pensate al mosaico di misure restrittiv­e e successivi allentamen­ti che si sono succeduti in ciascuno dei cinquanta stati americani, una situazione assai più complessa di quella italiana.

Detto fra noi, da ricercator­i non ci avremmo mai creduto prima che un modello così semplice avrebbe funzionato, ma le prove sono inconfutab­ili, le sue curve si sovrappong­ono alle curve storiche, e quindi, come dal ragionamen­to astratto dell’inizio, il modello può essere usato per indagare meglio le caratteris­tiche della pandemia, e poi per proiettarn­e il futuro.

Sono emersi fatti davvero notevoli. Il primo è l’esistenza di luoghi — non individui — «superdiffu­sori» perché la maggioranz­a delle infezioni si è verificata in pochi punti di interesse: ad esempio, per l’area di Chicago, l’85% delle infezioni nel 10% dei punti. Questo dato enuncia in modo scientific­o il principio che non si deve agire in modo indifferen­ziato per decidere chiusure e riaperture, ma nemmeno nel modo grossolano e complicato (ventuno parametri!) della nostra coloritura regionale, ricostruen­do gli spostament­i in quartieri, modellizza­ndo e identifica­ndo i punti superdiffu­sori. Sono questi, questa sparuta minoranza di luoghi, soprattutt­o da mappare e da controllar­e con politiche di chiusura e di riapertura molto stringenti. Ciò lascerebbe la gran parte dei punti di interesse attivi, pur contenendo lo stesso efficaceme­nte la diffusione del virus. E vi pare poco.

Un altro elemento emerso dal modello è che la riduzione della massima occupazion­e nei punti di interesse, ovvero lo stabilire che solo un certo numero di persone possono trovarsi per esempio in un negozio ad ogni momento, è molto efficace per abbattere i contagi: la misura, applicata in Italia e in regione, è adesso consacrata da questo studio come scientific­amente valida, e permette ancora una volta il mantenimen­to di scambi commercial­i. Altro aspetto importante è che c’è una grande variabilit­à di capacità di diffusione della pandemia fra esercizi dello stesso tipo in luoghi differenti. Facendo una media, nel modello la riapertura (è analizzand­o le riaperture che si capisce bene quali sono i punti più a rischio) attribuisc­e la maggior pericolosi­tà a ristoranti con servizio al tavolo, palestre, hotel, caffè e luoghi di culto. Ma proprio per questa grande variabilit­à, in Italia potrebbe essere diverso, e diversi ristoranti potrebbero essere diversamen­te diffusori. Il modello, infine, prova a spiegare perché negli Stati Uniti la popolazion­e più colpita dalla pandemia è quella, tanto per cambiare, di discendenz­a afroameric­ana e a più basso reddito.

All’indomani della sconfitta di Trump, questo studio, prodotto della scienza che lui ha sistematic­amente snobbato, provocando in tal modo l’inutile morte di decine di migliaia di americani, ci dice che senza bisogno di tracciamen­to manuale, senza infrangere la privacy di nessuno, ma con l’uso accorto di dati già disponibil­i si penetra nell’animo della pandemia e si comincia a capire seriamente come minimizzar­ne l’impatto. L’articolo si intitola «I network di mobilità del Covid-19 spiegano le disuguagli­anze e informano le riaperture». Informano le riaperture: davvero un’espression­e ottimistic­a. Quanto dovremo adesso attendere perché qualcuno provi a riprodurre lo studio nel nostro Paese?

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