IL MODELLO AMERICANO
La scienza progredisce grazie all’uso di modelli, che sono in pratica uno specchio semplificato di come pensiamo funzioni la realtà. Quando un modello riesce a riprodurla bene, senza troppi scarti, allora lo usiamo per provare a capire di più sul pezzo di realtà esaminato, e magari a prevederne il futuro. Questa premessa per introdurre uno studio appena uscito sulla pandemia, che farà la differenza nel paese, gli Stati Uniti, in cui è stato realizzato. Il modello, riportato dalla rivista Nature, si basa su dati di localizzazione spaziale molto precisi e ad intervalli temporali di un’ora per quasi cento milioni di cittadini che vivono nelle dieci aree metropolitane più popolose della nazione, nel periodo che va dall’8 marzo al 9 maggio.
Com’è possibile avere informazioni di movimento così precise? Lo è, se i dati te li forniscono Google e SafeGraph, per di più in formato anonimizzato e quindi esenti da problemi di privacy. Google li ottiene legalmente da chiunque abbia l’app Google Maps, SafeGraph tramite un procedimento più complicato, che coinvolge l’intelligenza artificiale. Entrambe le aziende, si sa, normalmente vendono questi dati e ora li hanno donati al gruppo di epidemiologi.
Iquali hanno aggiunto al cocktail pochi, semplici ingredienti. Uno è la divisione degli Stati Uniti in unità territoriali chiamati «census block group» (delle specie di frazioni, o di quartieri, comunali) che al massimo comprendono tremila persone, e in ciascuna unità hanno ricostruito il network di spostamenti verso e da punti di interesse, ovvero luoghi dove si concentrano individui per i più disparati motivi. Un altro ingrediente è una rappresentazione matematica di epidemie chiamata Seir — acronimo per Suscettibili, esposti, infettati e rimossi — quindi quattro scatole virtuali in cui mettere gli individui positivi al virus, dove gli esposti sono coloro che lo stanno incubando mentre i rimossi sono i guariti. Questo scheletro è il modello, che infine è stato calibrato (si dice così) usando l’ultimo ingrediente, i dati sui casi di contagio per giorno e per area metropolitana riportati da un giornale, il New York Times.
Difficile? Non così tanto, credete. Forse grazie alla finezza e alla completezza del profilo di geolocalizzazione — chi ormai non porta con sé un telefono cellulare — il cocktail riproduce con precisione eccellente i casi osservati in tutte le dieci aree metropolitane negli Stati Uniti durante i due mesi di analisi dei dati. La cosa è sorprendente, se pensate al mosaico di misure restrittive e successivi allentamenti che si sono succeduti in ciascuno dei cinquanta stati americani, una situazione assai più complessa di quella italiana.
Detto fra noi, da ricercatori non ci avremmo mai creduto prima che un modello così semplice avrebbe funzionato, ma le prove sono inconfutabili, le sue curve si sovrappongono alle curve storiche, e quindi, come dal ragionamento astratto dell’inizio, il modello può essere usato per indagare meglio le caratteristiche della pandemia, e poi per proiettarne il futuro.
Sono emersi fatti davvero notevoli. Il primo è l’esistenza di luoghi — non individui — «superdiffusori» perché la maggioranza delle infezioni si è verificata in pochi punti di interesse: ad esempio, per l’area di Chicago, l’85% delle infezioni nel 10% dei punti. Questo dato enuncia in modo scientifico il principio che non si deve agire in modo indifferenziato per decidere chiusure e riaperture, ma nemmeno nel modo grossolano e complicato (ventuno parametri!) della nostra coloritura regionale, ricostruendo gli spostamenti in quartieri, modellizzando e identificando i punti superdiffusori. Sono questi, questa sparuta minoranza di luoghi, soprattutto da mappare e da controllare con politiche di chiusura e di riapertura molto stringenti. Ciò lascerebbe la gran parte dei punti di interesse attivi, pur contenendo lo stesso efficacemente la diffusione del virus. E vi pare poco.
Un altro elemento emerso dal modello è che la riduzione della massima occupazione nei punti di interesse, ovvero lo stabilire che solo un certo numero di persone possono trovarsi per esempio in un negozio ad ogni momento, è molto efficace per abbattere i contagi: la misura, applicata in Italia e in regione, è adesso consacrata da questo studio come scientificamente valida, e permette ancora una volta il mantenimento di scambi commerciali. Altro aspetto importante è che c’è una grande variabilità di capacità di diffusione della pandemia fra esercizi dello stesso tipo in luoghi differenti. Facendo una media, nel modello la riapertura (è analizzando le riaperture che si capisce bene quali sono i punti più a rischio) attribuisce la maggior pericolosità a ristoranti con servizio al tavolo, palestre, hotel, caffè e luoghi di culto. Ma proprio per questa grande variabilità, in Italia potrebbe essere diverso, e diversi ristoranti potrebbero essere diversamente diffusori. Il modello, infine, prova a spiegare perché negli Stati Uniti la popolazione più colpita dalla pandemia è quella, tanto per cambiare, di discendenza afroamericana e a più basso reddito.
All’indomani della sconfitta di Trump, questo studio, prodotto della scienza che lui ha sistematicamente snobbato, provocando in tal modo l’inutile morte di decine di migliaia di americani, ci dice che senza bisogno di tracciamento manuale, senza infrangere la privacy di nessuno, ma con l’uso accorto di dati già disponibili si penetra nell’animo della pandemia e si comincia a capire seriamente come minimizzarne l’impatto. L’articolo si intitola «I network di mobilità del Covid-19 spiegano le disuguaglianze e informano le riaperture». Informano le riaperture: davvero un’espressione ottimistica. Quanto dovremo adesso attendere perché qualcuno provi a riprodurre lo studio nel nostro Paese?