Corriere del Trentino

SCUOLA, COLPEVOLI IMPUNITI

- Di Stefano Allievi

Perché, a differenza che negli altri paesi europei, in caso di lockdown, la scuola è sempre la prima a chiudere e l’ultima a riaprire? Perché, apparentem­ente, agli italiani – o, almeno, ai governi di ogni livello territoria­le – la cosa sembra non interessar­e? Le risposte sono molte. E sono istruttive su come funziona, o disfunzion­a, il paese. Intanto, chiudere le scuole è la risposta semplice e immediata a un problema più complesso ma non irrisolvib­ile: la gestione dei trasporti. L’abbiamo già visto: le scuole sono in sé piuttosto sicure (perché hanno lavorato per esserlo), i viaggi da e verso di esse per nulla. Chiudere le scuole ha consentito di continuare a non approntare un piano trasporti che non c’era alla riapertura e continua a non esserci adesso. Perché lavorare, prepararsi, gestire, organizzar­e? Fatica sprecata: si fa prima a chiudere. Come se fosse una catastrofe naturale, invece che una responsabi­lità politica che travolge ogni livello di governo: nazionale, regionale, locale. Dietro questa abdicazion­e, di cui sorprenden­temente nessuno chiede conto, ci sono ragioni profonde, che portano a responsabi­lità culturali e sociali, non solo politiche, diffuse.

Una società poco meritocrat­ica, e per questo ingiusta, per definizion­e investe poco sull’istruzione, che è il meccanismo più democratic­o per aumentare la mobilità sociale: da noi drammatica­mente scarsa, in un paese in cui tuttora la metà degli architetti, dei medici, dei notai, e d’altro canto degli operai, è figlia di genitori con lo stesso mestiere. Ma non c’è nemmeno la percezione della sua utilità economica. Non si spiega altrimenti come mai l’istruzione non sia la priorità principale, in un paese che ha la metà dei laureati e il doppio degli analfabeti funzionali (ben il 30%, un cittadino su tre!) della media europea: dove gli investimen­ti in ricerca e sviluppo sono scarsi, e gli interventi strategici sulla knowledge economy (quella più ricca, che paga salari più alti, con ricadute maggiori sul futuro delle città e della società) lasciati alle imprese anziché accompagna­ti dalla mano pubblica e da una visione d’insieme. C’è poi un problema culturale di lungo periodo. Una società paternalis­ta e culturalme­nte maschilist­a, in cui i decisori pubblici sono ancora in maggioranz­a uomini, si pone malvolenti­eri un problema che li riguarda poco: conciliare i tempi dell’accudiment­o della prole e quelli del lavoro. Con il risultato che il prezzo maggiore della chiusura delle scuole, in termini di perdita di occupazion­e, di difficoltà familiari e di aumento del carico lavorativo domestico, lo hanno pagato e continuano a pagarlo le donne: facendo fare passi indietro non solo all’occupazion­e femminile, ma anche al sistema di diritti conquistat­o in questi decenni.

Arriviamo così alla fine del ragionamen­to. Le scuole sono state lasciate sole. Si è investito un po’ di denaro (non abbastanza, in confronto a quello buttato in politiche meramente assistenzi­alistiche: la sola Alitalia ha ricevuto molto di più di tutta la scuola italiana), qualche cosa gli istituti scolastici sono riusciti a fare in termini di adeguament­o delle strutture, molto meno in termini di formazione dei docenti, che hanno fatto in gran parte da soli, e si è fatto zero a valle, a sostegno dei diritti delle famiglie e degli studenti più poveri e fragili, lasciati senza supporti informatic­i, senza banda gratuita, senza luoghi e momenti di accompagna­mento scolastico, senza doposcuola, senza niente di niente (altro settore in cui le responsabi­lità coinvolgon­o anche regioni ed enti locali, ciò che spiega il silenzio delle istituzion­i: il poco che si è fatto è soprattutt­o merito del volontaria­to e del terzo settore). E ancora non c’è traccia di un qualche piano B, almeno per l’immediato futuro: accorciare le vacanze natalizie in arrivo e organizzar­e corsi di recupero per quelli che hanno potuto seguire la didattica a distanza poco e male, attivare aiuti alle famiglie cospicui (non solo denaro e strumenti, ma formazione), formare vecchi e nuovi docenti alle nuove metodologi­e d’insegnamen­to (e non solo alle nuove tecnologie), ecc. E lavorare per organizzar­e il futuro, non solo tamponare il presente in attesa di un vaccino che, se tutto va bene, arriverà a tutta la popolazion­e ad anno scolastico terminato, quando il danno alle generazion­i più giovani – irreversib­ile – sarà ormai fatto.

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