«Botte e insulti, l’ho denunciato per i miei figli»
«Quante volte sono passata davanti al Centro Antiviolenza», dice oggi Ilaria. Finché entra quando le botte dell’ex si scagliano pure sulla figlia. Un’altra incredibile storia di violenza sulle donne.
TRENTO Ilaria è forte, fortissima. A raccontare la sua storia, voltandosi indietro, quei grandi occhi verdi però s’arrossano di lacrime. È inevitabile. Sposta i boccoli dietro le orecchie, prende fiato, riparte. «Quante volte sono passata in via Dogana davanti al Centro Antiviolenza», dice oggi. Finché prima chiama e poi entra davvero. Quando le botte dell’ex marito si scagliano pure sulla figlioletta maggiore, Ilaria smorza la voce dell’ex compagno violento che, insistente, le ripeteva «tu sei una nullità». Ma Ilaria è tutt’altro. L’ha denunciato, si è separata, è stato condannato. Non solo. Ilaria ha combattuto (e combatte) contro i cliché. Lui, membro delle forze dell’ordine, nell’immaginario popolare è per definizione uomo retto. «Mi sono sentita giudicata, messa in dubbio». Ma ha superato ogni prova. «E alle donne che oggi sono immobilizzate dalla paura dico: se ne esce, passo dopo passo».
Ilaria, oggi lei è una donna nuova. Ha lavorato su sé stessa, ha sofferto, ha combattuto contro la superficialità del giudizio. Ma partiamo dall’inizio: quando comincia la sua relazione?
«Io e il mio ex compagno abitavamo nello stesso paesino in val di Sole. Un centro piccolo, famiglie che si conoscevano. Prima eravamo amici e poi, con il tempo, ci siamo fidanzati».
Quindi giovanissimi.
«Io quindici anni, lui venti. Per un periodo ci siamo allontanati salvo poi tornare insieme e sposarci».
Famiglie che si conoscevano, un uomo che i suoi hanno visto crescere e che ha scelto un lavoro socialmente riconosciuto nelle forze dell’ordine. Non si aspettava d’incontrare un uomo violento. Quando sono cominciati i maltrattamenti?
«Durante il fidanzamento con il senno di poi c’erano state delle situazioni discutibili. Ma è facile dirlo ora. Però tutto è cominciato una volta sposati. Lo dico sempre, ho sposato una persona e ne ho trovata in casa un’altra».
La annichiliva verbalmente? La picchiava?
«La violenza verbale era fatta di insulti e minacce. Offese costanti per farmi sentire semplicemente una nullità. “Sei una stupida”, “ti rovino”, “ti faccio venire a prendere dall’ambulanza”, “sei pazza”. E a forza di sentirle certe parole ci si crede. Qualsiasi cosa dicessi o facessi era sbagliata. E poi le botte. Mani al collo, calci, pugni».
Poi però ha deciso di fare qualcosa, quando è accaduto?
«Le violenze non erano quotidiane, fra un episodio e l’altro passava qualche mese. Ma io stavo cambiando. Mi sentivo sopraffatta dalla situazione e ho cercato un aiuto psicologico, un aiuto per me. Avevo comportamenti che prima non avevo, reagivo in modo diverso. Durante questi colloqui emergeva inevitabilmente anche l’ambito familiare perché riportavo che in casa non mi sentivo apprezzata. Mi sentivo una persona inutile, pensavo avesse ragione quando mi insultava. A volte chiedevo scusa per cose che non avevo fatta pur di farlo smettere. Altre volte pensavo che se non avessi detto qualcosa forse avrei evitato una sua reazione».
Oggi lei sa però che non è così, che non aveva alcuna colpa.
«Certo, ho fatto un lungo percorso grazie anche alle operatrici del Centro antiviolenza. Sono state la mia salvezza: grazie a loro sono uscita da questa situazione».
Quando le violenze si sono spostate anche sulla sua figlioletta più grande ha trovato la forza di denunciare. Com’è andata?
«Ho preso consapevolezza che dovevo agire quando ho visto nei miei tre figli, in particolare nella primogenita, delle reazioni che non erano consone. La violenza assistita veniva imitata e lì ho detto basta. La forza mi è venuta dall’urgenza di tutelare i miei bambini».
Il suo ex marito lavora nelle forze dell’ordine, una professione socialmente riconosciuta come utile, benevola. Quanto ha dovuto lottare per sgretolare questi stereotipi? C’è chi non l’ha creduta?
«Ho dovuto combattere moltissimo, in alcuni casi non ce l’ho fatta. Perché purtroppo a volte esiste mancanza di conoscenza. Anche molti amici si sono schierati con lui. Ci ho riflettuto, più che cattiveria è proprio mancanza di consapevolezza di ciò che può succedere in una coppia, soffermandosi all’immagine pubblica. Dietro c’è un vissuto che si ignora, ma si giudica ugualmente».
Lei, che è vittima, ha fatto un percorso anche doloroso su sé stessa. Chi la maltratta però oltre la condanna non è tenuto a farlo. Cosa manca, oggi, nel sistema giuridico italiano per tutelare le vittime?
«Non c’è collegamento fra penale e civile. Malgrado una persona sia stata condannata per maltrattamenti sui figli, in sede civile quando si decide l’affidamento non se ne tiene conto. E anzi: può anche essere messa in discussione la vicenda. A me è accaduto, e fa male. Con il servizio sociale mi sono sentita giudicata. “Nessuno la obbligava a rimanere, perché non se ne è andata prima?”, mi dissero. Perché non è facile. È per questo che mi rivolgo a tutte le donne».
E cosa direbbe loro per dare coraggio a chi vive nella violenza?
«Le paure vi immobilizzano, lo so. La denuncia, la separazione, il processo. Tutto sembra enorme. Ma è possibile uscirne. Come? Un passo alla volta e si fa tutto, partendo da una telefonata».
Il Centro Antiviolenza si trova in via Dogana 1, a Trento. Per informazioni: O461 220048; centroantiviolenzatn@gmail.com