Covid, l’anno che ci ha cambiati
Un inserto per riflettere. Per andare oltre le notizie del vivere quotidiano guardando dall’alto l’anno che ha cambiato le nostre vite. Un anno che ha lasciato il segno nella scuola, nella sanità, nell’economia.
Con il governo Draghi, che ha riempito i serbatoi del consenso di Camera e Senato, si è chiuso simbolicamente un ciclo politico-pandemico avviato giusto un anno fa. Quando una variante di coronavirus infida e già operosa nei luoghi dell’altrove (Cina in primis) è stata ufficialmente censita sul suolo nazionale (e regionale), dandole una patente di cittadinanza virale dopo mesi di libera circolazione in clandestinità e senza la vigilanza sanitaria.
Il mondo è cambiato, noi siamo cambiati, la politica è cambiata, la comunicazione è cambiata. Perché l’emergenza si è fatta quotidianità e si è accomodata nell’orlo più alto delle priorità, osservando tutti dall’alto in basso, determinando ogni scelta, sfuggendo ad ogni scelta e retrocedendo le questioni che affollavano le agende instabili della politica. Si è infilata nelle fessure delle relazioni istituzionali, eccitando mai sopite tendenze dei mandarini romani — il centralismo (non) democratico e omologatore di esperienze altrui — e nuove rivendicazioni (il regionalismo dei governatori, che non collima esattamente con il federalismo) esito dei processi più recenti di ricomposizione politica.
Lo spazio dell’Autonomia si è giocato, a grandi linee, nello stesso perimetro delle altre regioni — e qui sta il vero problema per chi ha sempre negoziato direttamente con lo Stato — perché la pandemia ha sottratto campo e aria alle prerogative delle Province di Trento e Bolzano. Si è ridotta, a tutti i livelli, la dialettica democratica perché il Covid ha richiesto decisioni repentine, abbattendo la sacralità del dibattito (indispensabile) e alcune sue liturgie (senza nostalgia). In questo quadro è lievitata la funzione taumaturgica del governatore (Fugatti) e del Landeshauptmann (Kompatscher) con una torsione quasi «caudilliana» nei rapporti con l’opinione pubblica. Le dirette di Fugatti, in tv e sui social, del pomeriggio sono insieme uno strumento informativo e un momento disintermediato di relazione con la società.
Che, nelle fasi più acute, ha assunto le forme di un «paternalismo istituzionale». Spesso rimarcato dalla componente dialettale del discorso che ha portato la politica al bar anche in zona rossa.
Stato e Regioni (e Province autonome) hanno danzato nella pandemia, pestandosi i piedi e rifiutandosi prima di concedersi un ultimo giro di negoziazione. La Conferenza Stato-Regioni, come luogo deputato a selezionare l’accordo finale, ha indossato abito e paillettes mai avuti, ma con movenze e passi assai incerti. È stato un luogo di riduzione del danno dove si sono mitigate le spinte centraliste e dove il regionalismo ha ridotto il principio di esclusione. Ma senza designare un nuovo assetto di poteri.
La precarietà è un po’ la condizione che si è allungata, come un’ombra malata, sulle Autonomie speciali. Che non dispongono di norme di attuazione sulle pandemie per gestire l’organizzazione di un evento non prevedibile come quello in corso e nemmeno per bilanciare l’esclusività statuale. Le Comunità autonome, come le avrebbe riformulate Lorenzo Dellai, si sono rimpicciolite. Trento si è ritirata dopo il primo ricorso del governo (tema: il commercio) alla Corte costituzionale per un decreto ministeriale del presidente del consiglio (acronimo: Dpcm, ormai entrato nel lessico affettivo) violato dalla Provincia. Bolzano ha osato di più, non in forza dello Statuto di autonomia e di una consuetudine a definire e ridefinire, in un’oscillazione ipnotica, il campo delle proprie attribuzioni rispetto allo Stato attraverso la giurisprudenza, ma facendo leva sulle maggioranze politiche, sui seggi senatoriali (con quelli decisivi della Svp) che hanno operato un sotterraneo ricatto e offerto a Kompatscher le chiavi di una differenziazione su chiusure e cromatismi. Ma i tre lockdown, alcuni autonomamente autoimposti, dove si è marciati dalla massima apertura alla massima chiusura, certificano che la Sonderweg altoatesina, la via speciale nell’interdizione del Covid, ha terminato la sua corsa in un vicolo cieco. E il governo Draghi, proprio in virtù di un sostegno ora plebiscitario, ha derubricato il peso del voto altoatesino in parlamento, scivolato dalla rilevanza all’irrilevanza.
Le due comete dell’autonomismo hanno, poi, provato a costruire con gli altri player nordici (Veneto, Emilia Romagna, Friuli) la santa alleanza del vaccino liberista. Anche qui schiantandosi su dimensioni (nazionale ed europea) invalicabili. Mostrando un’intraprendenza tuttavia necessaria — anche se in un terreno ambiguo — di fronte all’inazione dello Stato. La partita degli assetti e di una nuova relazione con Roma è aperta, ma mai come oggi precaria.