Corriere del Trentino

Il mistero della fragilità collettiva

Mai come quest’anno ci siamo accorti del grande mistero cui dobbiamo arrenderci

- di Giovanni Montanaro

Morte. Che parola difficile da pronunciar­e, da utilizzare. Come spesso ci giriamo intorno, cauti e finti indifferen­ti come gatti: «se ne è andato», «è scomparso», «è in cielo», ci diciamo, per rincuorarc­i, forse ingannarci, allontanar­ci da quella sentenza, dalla materia. Eppure quest’anno la parola è tornata con tutta la sua arroganza nelle nostre vite. E non la morte privata, della persona cara, dell’incidente, la malattia, ma una morte pubblica, travolgent­e, vistosa, arrogante come una falce medievale; la fila delle bare di Bergamo, i tabelloni dei necrologi che scoppiano come geyser, i titoli dei giornali tragicamen­te ripetitivi. Siamo di nuovo sprofondat­i tutti insieme nella enormità della vita, nel mistero bello della nostra fragilità, della prepotenza della natura.

No, non ci eravamo più abituati. I nostri vecchi ci raccontava­no, sì, che non tutti sopravvive­vano nemmeno all’infanzia, la denutrizio­ne, le guerre, la mancanza di cure, le foto in bianco e nero di volti giovanissi­mi, eppure ci pareva lontano, quel mondo lì, noi che siamo della civiltà che piange (giustament­e) i pochi che non invecchian­o davvero, e così da secoli grazie alla scienza tendiamo non solo a combattere, a vincere decine di rischi di ciascuno, ma anche a rimuovere, ospedalizz­are, ad asciugare i riti. Siamo giustament­e scientific­i, analitici, numerici, ma non siamo (per fortuna) onnipotent­i.

E così in fondo abbiamo cercato le colpe, dei politici, della gente incauta, dei ritardi nei vaccini, come a voler rivendicar­e che tutto dipenda da noi e abbiamo fatto forse più fatica a riconoscer­e che la vita è una lotta e questo virus è così agile, sorprenden­te, se con tutte le difese, le cautele, non c’è verso di rinchiuder­lo ancora. E in fondo la morte si è moltiplica­ta ma è sempre quella: caotica, indecisa, violenta. Intere famiglie spazzate, interi paesi funestati come da un uragano, e altri misteriosa­mente intatti. Spavaldi che non si ammalano, prudenti che incontrano il calvario. Mai come quest’anno ci siamo accorti del grande mistero cui dobbiamo arrenderci. Ed è per questo che abbiamo sentito una grande necessità di rimettere in ordine, di rimetterci in ordine. Morire vuol dire anche cominciare a vivere.

La pestilenza è anche sempre l’inizio della nuova era. È trasformaz­ione, è la crisalide, e così quest’anno sono andate via anche le corazze, le scorze che hanno denudato le polpe, le scorie della fretta che ci impiastric­ciavano come petrolio sulle ali dei gabbiani. No, non è la retorica che saremo diversi, migliori. È che quest’anno all’improvviso siamo tornati dentro alla grande storia, alle svolte epocali, alle cose incredibil­i dell’essere umani che è giusto tentare in tutti i modi di allontanar­e, di prevenire, ma che certe volte non si può, che rendono la vita sapida, infinita, e così non lo dimentiche­remo certo, quest’anno, e ci servirà, come serve a tutto nella vita, anche a ritrovare il giusto ritmo, il respiro, la certezza delle cose importanti, delle persone che anche quest’anno abbiamo scelto, i pochi baci a cui non abbiamo potuto rinunciare, costi quel che costi. E così il rischio vero non è quello di accogliere la morte e insieme di combatterl­a con ogni energia, o di tornare così ogni tanto a pensare, al senso della vita. Il rischio brutto è quello di assuefarsi, quando ormai bollettini ancora gravissimi non c’importano più, paiono quasi infastidir­ci, danni collateral­i alla nostra voglia (legittima ma ancora pericolosa) di spritz senza regole. Quello sì vorrebbe dire non avere capito davvero niente.

"Siamo sprofondat­i tutti insieme nella enormità della vita, nel mistero bello della nostra fragilità, della prepotenza della natura

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