Il mistero della fragilità collettiva
Mai come quest’anno ci siamo accorti del grande mistero cui dobbiamo arrenderci
Morte. Che parola difficile da pronunciare, da utilizzare. Come spesso ci giriamo intorno, cauti e finti indifferenti come gatti: «se ne è andato», «è scomparso», «è in cielo», ci diciamo, per rincuorarci, forse ingannarci, allontanarci da quella sentenza, dalla materia. Eppure quest’anno la parola è tornata con tutta la sua arroganza nelle nostre vite. E non la morte privata, della persona cara, dell’incidente, la malattia, ma una morte pubblica, travolgente, vistosa, arrogante come una falce medievale; la fila delle bare di Bergamo, i tabelloni dei necrologi che scoppiano come geyser, i titoli dei giornali tragicamente ripetitivi. Siamo di nuovo sprofondati tutti insieme nella enormità della vita, nel mistero bello della nostra fragilità, della prepotenza della natura.
No, non ci eravamo più abituati. I nostri vecchi ci raccontavano, sì, che non tutti sopravvivevano nemmeno all’infanzia, la denutrizione, le guerre, la mancanza di cure, le foto in bianco e nero di volti giovanissimi, eppure ci pareva lontano, quel mondo lì, noi che siamo della civiltà che piange (giustamente) i pochi che non invecchiano davvero, e così da secoli grazie alla scienza tendiamo non solo a combattere, a vincere decine di rischi di ciascuno, ma anche a rimuovere, ospedalizzare, ad asciugare i riti. Siamo giustamente scientifici, analitici, numerici, ma non siamo (per fortuna) onnipotenti.
E così in fondo abbiamo cercato le colpe, dei politici, della gente incauta, dei ritardi nei vaccini, come a voler rivendicare che tutto dipenda da noi e abbiamo fatto forse più fatica a riconoscere che la vita è una lotta e questo virus è così agile, sorprendente, se con tutte le difese, le cautele, non c’è verso di rinchiuderlo ancora. E in fondo la morte si è moltiplicata ma è sempre quella: caotica, indecisa, violenta. Intere famiglie spazzate, interi paesi funestati come da un uragano, e altri misteriosamente intatti. Spavaldi che non si ammalano, prudenti che incontrano il calvario. Mai come quest’anno ci siamo accorti del grande mistero cui dobbiamo arrenderci. Ed è per questo che abbiamo sentito una grande necessità di rimettere in ordine, di rimetterci in ordine. Morire vuol dire anche cominciare a vivere.
La pestilenza è anche sempre l’inizio della nuova era. È trasformazione, è la crisalide, e così quest’anno sono andate via anche le corazze, le scorze che hanno denudato le polpe, le scorie della fretta che ci impiastricciavano come petrolio sulle ali dei gabbiani. No, non è la retorica che saremo diversi, migliori. È che quest’anno all’improvviso siamo tornati dentro alla grande storia, alle svolte epocali, alle cose incredibili dell’essere umani che è giusto tentare in tutti i modi di allontanare, di prevenire, ma che certe volte non si può, che rendono la vita sapida, infinita, e così non lo dimenticheremo certo, quest’anno, e ci servirà, come serve a tutto nella vita, anche a ritrovare il giusto ritmo, il respiro, la certezza delle cose importanti, delle persone che anche quest’anno abbiamo scelto, i pochi baci a cui non abbiamo potuto rinunciare, costi quel che costi. E così il rischio vero non è quello di accogliere la morte e insieme di combatterla con ogni energia, o di tornare così ogni tanto a pensare, al senso della vita. Il rischio brutto è quello di assuefarsi, quando ormai bollettini ancora gravissimi non c’importano più, paiono quasi infastidirci, danni collaterali alla nostra voglia (legittima ma ancora pericolosa) di spritz senza regole. Quello sì vorrebbe dire non avere capito davvero niente.
"Siamo sprofondati tutti insieme nella enormità della vita, nel mistero bello della nostra fragilità, della prepotenza della natura