La guerra verticale: il fronte italoaustriaco e le migliaia di vittime sulle cime imbiancate
L’alpinismo è un’attività tutto sommato recente, con duecento anni scarsi di vita. Nella sua storia un grosso impulso all’esplorazione delle montagne e alla conquista delle vette si manifestò in periodo pre bellico e durante il primo conflitto mondiale, anni nei quali il Trentino fu al centro di quel processo. Diego Leoni, che coordina il laboratorio di Storia di Rovereto, ci ha aiutato a ricreare una fotografia del particolare momento storico.
Da parte sua come è arrivata la scelta di studiare la guerra?
«I primi studi risalgono agli anni ‘70, ai lavori con Camillo Zadra. La Città di legno racconta dei profughi trentini in Austria, era il nome che i nostri uomini davano ai loro accampamenti. Una svolta importante negli studi sul conflitto arrivò poi con il convegno internazionale del 1985, a Rovereto. Si chiuse un’epoca segnata da una storiografia che aveva molto a che fare con l’ideologia e si aprì una stagione che scoprì un nuovo modo di raccontare: legato alle immagini, alle storie soggettive.
A metà anni ‘80 i tempi erano maturi per parlare con un linguaggio nuovo?
«Occuparci della Grande Guerra, per noi che siamo i ragazzi del ‘68, fu l’occasione per ricucire uno strappo con i nostri padri. Gli scontri del 3 novembre 1968 a Trento tra studenti e alpini avevano delineato una marcata frattura generazionale. Scese un silenzio che durò molti anni e lo sciogliemmo noi, anche con questo faticoso lavoro di ricerca, quasi ossessivo».
Come conoscenza della montagna e delle competenze alpinistiche, chi era più preparato sul nostro fronte, alla vigilia della Grande Guerra?
«L’esercito austro ungarico era favorito: il fronte si era aperto in un territorio che per gli italiani era sconosciuto. Ci lasciarono chilometri di territorio, ma era quasi una trappola. Solo i fuoriusciti avevano qualche conoscenza, ma l’alta montagna generalmente era stata esplorata pochissimo. Pensiamo ai ghiacciai: nessuno si avventurava in quei luoghi. Nemmeno gli austriaci avevano una cartografia così dettagliata come si può supporre».
Chi possedeva le conoscenze necessarie?
«Pochissimi individui, ed erano ovviamente molto preziosi. Giovanni Battista Trener cominciò a operare negli stati maggiori come geologo, divenne il fondatore del metodo che utilizzava i rilievi cartografici aerei. Cesare Battisti, geografo, scriveva lettere alla moglie dal Pasubio, nelle quali ammetteva che non avevano alcuna conoscenza di quei territori. Gli ufficiali andavano all’attacco con carte in una scala 1:100.000, praticamente la stessa delle odierne carte stradali. Era impensabile muoversi con quei presupposti. E anche le cime non erano state ancora frequentate, raggiunte solo in sporadici tentativi. La guerra diventò un laboratorio di geologia, speleologia, meteorologia».
C’erano corpi speciali che riunivano i soldati più preparati?
«Non erano in molti a sapere andare in montagna. Gli austriaci avevano i bergführer, per l’esercito italiano non si possono dimenticare Giovanni Strobele o Carlo Garbari tra i nomi più importanti, ma rimangono soprattutto casi isolati. Le cime venivano conquistate al prezzo di vite umane, un costo sproporzionato rispetto ai vantaggi militari conseguiti. I rispettivi club alpini combattevano una guerra nella guerra: tracciavano sentieri, costruivano rifugi, talvolta a poche centinaia di metri di distanza tra loro (si pensi, ancora in periodo pre bellico, al Tuckett e al Sella in Brenta, ndr). Le azioni di conquista delle vette miravano soprattutto a legittimare l’onore dei comandi. Un tale impegno di uomini e mezzi non sarebbe stato possibile in periodo di pace: anche solo per la quantità di scale, di pioli, di chiodi impiegati. Pensiamo anche all’utilizzo di minatori, per far saltare interi tratti di roccia se non le cime stesse».
Non esisteva ancora un abbigliamento «tecnico». Gli equipaggiamenti migliorarono con l’esperienza?
«L’inizio fu catastrofico, erano equipaggiamenti assolutamente inconsistenti per le quote e gli ambienti dati. Carlo Emilio Gadda si scagliò contro gli approfittatori che, affermava, avevano calzato gli uomini da far pietà: con cuoio scadente, con abiti dalle cuciture a macchina che si disfacevano dopo tre giorni. Poi arrivarono capi d’abbigliamento in pelo o copri scarpe, stivali. Ma era poca cosa. Nel lessico dei soldati comparvero nuovi verbi come interrarsi, incavernarsi, perché cercarono di sfuggire alla morte soprattutto ricorrendo a ripari sotterranei».
La montagna venne trasformata per sempre e vennero anticipate anche alcune tendenze.
«La montagna subì un’aggressione di dimensioni colossali. La prima armata italiana, che coprì il fronte dallo Stelvio alla Valsugana, era inizialmente composta di 220mila uomini e 30mila quadrupedi. In poco più di un anno divennero 800mila con 120mila animali. Furono costruite le vie di accesso che oggi conosciamo, tutto andava portato da valle. I sentieri diventarono mulattiere e poi carrozzabili. Solo in Trentino furono tracciati 900km di strade. Il nostro è un territorio carsico, non c’era acqua di superficie a sufficienza. Furono costruiti acquedotti, ma oltre al freddo e alla fame i soldati continuavano a patire una sete tremenda. Oltre alle infrastrutture viarie la guerra lasciò sul campo anche alcuni costumi e tendenze. Pensiamo allo sci: ebbe un grande impulso, prima ancora di diventare un fenomeno turistico. O alla conquista sistematica delle cime, sviluppatasi maggiormente nel periodo post bellico, con tutta la retorica annessa».