I molti pericoli di un deserto comunicativo
L’immagine umiliante della studentessa di un liceo veronese bendata,in occasione di una verifica orale durante una lezione in DaD (didattica a distanza), sembrerebbe essere solo un ultimo esempio di una più vasta casistica di orrori pedagogici, assieme a interrogazioni con il viso rivolto contro il muro oppure con mani alzate bene in vista(proprio come in un western di Sergio Leone): «C’era una volta la scuola».
La clausura imposta da questa infinita pandemia sta creando una vera emergenza educativa, addirittura, come ha ben argomentato Antonio Polito sul Corriere della Sera, un autentico «disastro psichiatrico», non solo per quanto riguarda l’attuale generazione di studenti, «accartocciati intorno a uno schermo luminoso», ma anche per l’intera classe docente, disprezzata e professionalmente disorientata da troppo tempo. La triste evidenza dimostra come la scuola sia ormai diventata soprattutto una elefantiaca macchina burocratica, senz’anima, un meccanismo amministrativo dove la cultura è solo un ingombrante accessorio. Siamo di fronte all’assurdo di un far scuola senza scuola, di un far lezione senza lezione, e la smarrita fanciulla imbavagliata dentro lo schermo di un tablet assomiglia fin troppo all’emblema di una istituzione stravolta e scardinata.
La DaD, non solo per le molteplici difficoltà di connessione casalinga, ha fatto molti più danni di quanto si possa immaginare, per la sua stessa natura comunicativa, del tutto emergenziale, nozionistica e sterile. Sono davvero liberi questi poveri scolari,«banda dei bimbi sperduti» su di una digitalizzata «Isola che non c’è», confinati e abbandonati, inascoltati, laddove non può esserci né educazione né‘ sapere senza l’autentica relazione pedagogica necessaria per «fare scuola»?
Il piacere-desiderio di insegnare e di apprendere prospettano una forma di simmetria culturale, una relazione profonda che vincola i due «attori» del rapporto, il docente e il discente, attraverso i nessi intelletto-emozione, ragione-sentimento, pensiero logico-pensiero simbolico. Al di fuori di questo orizzonte dialogante può esserci solo una scuola «in assenza», dentro un contesto di noia e demotivazione, una sorta di «Moloch digitale», il deserto comunicativo.
Dunque la DaD come «finzione», una scuola in maschera, sinonimo di perdita di identità e di frantumazione dell’insieme-classe, tentativo malinconico di razionalizzare quella che ci appare sempre di più come un’ennesima sconfitta culturale, anche se — ovviamente — il radicale malessere della nostra scuola non si riduce all’uso di questi contenitori online. Oggi più che mai si avverte la necessità di spalancare gli occhi dei nostri ragazzi, non di chiuderli, di aprire prospettive, non di impedirle. Ecco allora che questa crisi radicale del «far scuola» potrebbe prospettarci delle scelte decisive, l’occasione per riportare finalmente il cavallo di Troia della conoscenza dentro le mura della città, rimettendo l’apprendimento e l’educazione, sinonimi di democrazia e libertà, al posto che spetta loro in un Paese civile.