L’interramento un errore, serve una svolta ecologica
Accanto a motivazioni legate alla viabilità e al trasporto, smentite in un recente documento da un gruppo di cittadini e di associazioni ambientaliste, i sostenitori della Tav/Tac del Brennero accampano motivazioni urbanistiche e di sviluppo economico. Mi permetto di avanzare alcune osservazioni. Comincio dall’opportunità economica. L’attuazione nazionale del Recovery Plan nasce per affrontare le conseguenze della pandemia. È noto che la stessa ha origine a seguito della rottura degli equilibri ecologici del pianeta dovuta a modelli economici, produttivi e di consumo ormai insostenibili. Alla base di quel modello sta una concezione basata sull’enorme produzione di merci e di bisogni; un’idea di ambiente e di natura come «risorsa infinita» da prelevare (e spesso saccheggiare) e non proteggere o conservare. Il mantra è la libera circolazione delle merci e dei capitali e la creazione di infrastrutture atte allo scopo. L’alta velocità e l’alta capacità ferroviaria nascono con questa funzione, servono a facilitare le delocalizzazioni delle produzioni (pensate per ridurre il costo della manodopera e aumentare i profitti) e la circolazione delle merci, privilegiando i flussi ai luoghi. Non è un caso insomma che si parli di «riconversione ecologica della economia». La classe dirigente trentina, e la quasi totalità delle rappresentanze politiche, non sembra averlo capito. Dalla Lega al sindaco di Trento l’idea di sviluppo è sostanzialmente uguale: le grandi opere. Sembra che tutti siano d’accordo per fare la circonvallazione di Trento e l’interramento della ferrovia, la funivia del Bondone, oltre al nuovo ospedale. La Lega (ma anche pezzi del già centrosinistra) si differenzia solo perché chiede di aggiungere anche il «completamento» della A31: la Pirubi. Queste opere hanno una caratteristica comune: sono tutte concentrate su Trento e rafforzano la tendenza di drenare sul capoluogo la stragrande maggioranza delle risorse pubbliche. Scelta che sta producendo pericolosi fenomeni di abbandono della montagna e forte inurbamento dell’asta dell’ Adige, mettendo in evidenza lo squilibrio pianificatorio provinciale. Le grandi opere, per la loro stessa natura, sono ad appannaggio di un numero molto ristretto di grandi imprese nazionali (non più di una decina in tutta Italia), le uniche che possono partecipare ad appalti con soglie di questa dimensione. L’impresa locale, dentro una prospettiva di questo tipo, finisce per giocare un ruolo ancillare, in altre parole può ambire al massimo al subappalto e quindi tendenzialmente non cresce, né dal punto di vista del know how né della dimensione e spesso deve lavorare con margini molto ridotti. Questa situazione ha portato anche nella nostra provincia alla mutazione della natura delle imprese edilizie diventate delle «immobiliari» (con un calo pesante degli addetti). Per dirla in altre parole la ricaduta sul territorio delle grandi opere è negativa. La ricaduta politica di un modello di sviluppo fatto di grandi opere e di concentrazione delle risorse e delle funzioni sulla città sono le elezioni provinciali del 2018, dove abbiamo assistito a una «riscossa» delle valli contro Trento, sostenuta in principal modo dalla Lega. Evidente che quel modello di sviluppo (che per comodità si potrebbe chiamare «Trento centrico») ha funzionato fino a quando le risorse dell’Autonomia erano ampie e consentivano comunque di destinare alle valli e alle periferie una quantità di denari tale da favorire il consenso. Esso è crollato invece proprio quando è mutato il quadro economico nazionale e contemporaneamente è divenuto operativo il «patto di Milano» (poi «Patto di Roma») che ha radicalmente cambiato il rapporto tra Provincia e Stato. Insomma a dire che la scelta della Alta Velocità è sbagliata non è solo il suo carattere conflittuale con vere politiche ambientali ma anche lo squilibrio territoriale che si porta dietro. Significativo, al riguardo, che la giunta provinciale, ma purtroppo anche quella del Comune di Trento, nel suggerire le opere da includere nel Recovery abbiano ragionato in assoluta continuità con le politiche neoliberiste.
Veniamo ora alla «motivazione urbanistica». A parte i costi, l’ interramento della ferrovia è presentato dai suoi sostenitori come «il sogno di superare la frattura urbana costituita dalla ferrovia» o l’opera che «ricostruisce il rapporto fra la città e il fiume Adige». Il presidente dell’Ordine degli architetti ha parlato di 14 ettari che servono a ricompattare la città attraverso residenze, funzioni, negozi. Nel dibattito è tornato in auge il piano regolatore redatto da Busquets. Quel piano, parzialmente ancora in vigore, prevedeva la realizzazione di un boulevard dall’area Magnete fino alle Albere con palazzi a destra e a sinistra. Un’altra pagina di quella che a tutti gli effetti è la concentrazione su Trento delle risorse pubbliche. Trento, proprio a seguito di tale politica, pur in presenza di una stazionarietà degli abitanti in provincia, continua a crescere. Siamo in presenza di una mutazione urbana costante che produce sulla città l’antropizzazione di circa 6 ettari all’ anno, che diventano edifici, residenze, servizi, funzioni. Oltre a questo il processo di inurbamento ha determinato un forte aumento anche degli abitanti dei paesi attorno al capoluogo. Il paradosso in cui ci troviamo vuole che l’offerta abitativa non coincida con la domanda. Chiedono casa soggetti con redditi bassi e le giovani generazioni, mentre l’offerta è per i ceti medio alti. Trento non ha bisogno di nuove aree edificabili, nemmeno di nuove funzioni pubbliche, ma di un serio riuso dell’esistente. Infine non è con un boulevard che si sana quello che è stato un gravissimo errore. Riconversione ecologica significa mettere in primo piano non gli episodi edilizi ma una risposta ambientalmente capace di riequilibrio.