UN MODELLO POCO FUNZIONALE E DISPENDIOSO
Ame pare che la riforma sanitaria avviata dalla giunta provinciale si ispiri a un modello vecchio, dispendioso, poco funzionale tanto per i pazienti quanto per il personale. La logica è ancora una volta quella di contrapporre valli e città.
Negli ultimi mesi la pandemia ha riportato la sanità al centro del discorso pubblico. Dai medici, dagli esperti di organizzazione sanitaria, abbiamo imparato che per fronteggiare un’emergenza come quella rappresentata dal Coronavirus avremmo avuto bisogno (tra l’altro) di una medicina di territorio maggiormente sviluppata: vale a dire di un presidio diffuso, costituito da medici di base, infermieri e altre figure professionali «di comunità», in grado di fare non solo prevenzione, ma anche di garantire tutte quelle prestazioni sanitarie di primo livello per cui oggi si ricorre all’ospedale. «Integrazione» viene considerata la parola chiave del modello sanitario vincente: integrazione tra cure specialistiche e di base, tra medici ospedalieri e medici di comunità, tra servizi per la fase acuta della malattia e servizi diffusi, anche a domicilio, pre o post ricovero. Non ultima, appare sempre più necessaria anche l’integrazione tra servizi sanitari e sociali, in modo da garantire il diritto alla salute anche alle fasce più fragili della popolazione. Leggo che la Giunta provinciale intende riformare la sanità trentina ispirandosi al modello dell’ospedale policentrico, con un’unica rete ospedaliera articolata in sette strutture specializzate in ambiti diversi. Dunque, con un Not ancora da costruire, con il personale medico e infermieristico che scarseggia, si decide di investire non sulla medicina territoriale, oggi del tutto insufficiente, ma sugli ospedali di valle. Che saranno specializzati, diventando dunque i «reparti» di un grande ospedale provinciale. È chiaro che questo modello comporterebbe una serie di conseguenze. La prima: vista la grande difficoltà nel recuperare il personale medico e infermieristico, investire sugli ospedali periferici significherebbe per forza disinvestire sull’ospedale di Trento. In secondo luogo, per lo stesso motivo sarà praticamente impossibile sviluppare quella medicina territoriale non ospedaliera di cui c’è estremo bisogno. Terzo: i pazienti che necessitano di cure altamente specializzate potrebbero essere costretti a spostamenti molto impegnativi (per esempio da Tione a Cavalese o da Arco a Cles) per raggiungere il reparto migliore e più adatto alla patologia. Senza contare il nodo risorse, che com’è noto non sono infinite e dunque non sono certo sufficienti a garantire livelli d’eccellenza diffusi e uniformi su tutto il territorio.
A me pare che il policentrismo ospedaliero all’interno dell’ambito provinciale si ispiri a un modello organizzativo vecchio, dispendioso, poco funzionale tanto per i pazienti quanto per il personale sanitario, che sarà distribuito in reparti periferici iperspecializzati. Eppure, dicono gli esperti, per raggiungere livelli d’eccellenza i medici hanno bisogno della casistica numerosa (garantita solo dal grande ospedale) e anche del confronto quotidiano con i colleghi di altre specialità, perché al centro della cura c’è la persona nella sua globalità, non un singolo organo, non una parte isolata del corpo. È importante anche che il decorso della malattia sia seguito da uno stesso team fino alla riabilitazione per assicurare una completa presa in carico del paziente. Auspico che, prima di diventare definitivo, il piano strategico della sanità per il prossimo quinquennio venga condiviso con le comunità, con lo stesso personale sanitario, con gli ordini professionali, con l’università, con le associazioni che rappresentano i malati. A pandemia ancora in corso, con la necessità di far fronte a questioni complesse come quelle legate all’invecchiamento della popolazione, Trento e il Trentino non possono davvero permettersi di sbagliare. Un’ultima osservazione. Mi pare che la logica di questo piano sia ancora una volta quella di mettere in contrapposizione valli e città, come se entrambi non facessero parte di un unico sistema in cui, al di là del campanile, quel che conta è il risultato finale. Che poi è la capacità di rispondere al bisogno di benessere e di salute dei cittadini e di assicurare a tutti la qualità dei servizi sanitari.