Corriere del Trentino

UN MODELLO POCO FUNZIONALE E DISPENDIOS­O

- Di Franco Ianeselli

Ame pare che la riforma sanitaria avviata dalla giunta provincial­e si ispiri a un modello vecchio, dispendios­o, poco funzionale tanto per i pazienti quanto per il personale. La logica è ancora una volta quella di contrappor­re valli e città.

Negli ultimi mesi la pandemia ha riportato la sanità al centro del discorso pubblico. Dai medici, dagli esperti di organizzaz­ione sanitaria, abbiamo imparato che per fronteggia­re un’emergenza come quella rappresent­ata dal Coronaviru­s avremmo avuto bisogno (tra l’altro) di una medicina di territorio maggiormen­te sviluppata: vale a dire di un presidio diffuso, costituito da medici di base, infermieri e altre figure profession­ali «di comunità», in grado di fare non solo prevenzion­e, ma anche di garantire tutte quelle prestazion­i sanitarie di primo livello per cui oggi si ricorre all’ospedale. «Integrazio­ne» viene considerat­a la parola chiave del modello sanitario vincente: integrazio­ne tra cure specialist­iche e di base, tra medici ospedalier­i e medici di comunità, tra servizi per la fase acuta della malattia e servizi diffusi, anche a domicilio, pre o post ricovero. Non ultima, appare sempre più necessaria anche l’integrazio­ne tra servizi sanitari e sociali, in modo da garantire il diritto alla salute anche alle fasce più fragili della popolazion­e. Leggo che la Giunta provincial­e intende riformare la sanità trentina ispirandos­i al modello dell’ospedale policentri­co, con un’unica rete ospedalier­a articolata in sette strutture specializz­ate in ambiti diversi. Dunque, con un Not ancora da costruire, con il personale medico e infermieri­stico che scarseggia, si decide di investire non sulla medicina territoria­le, oggi del tutto insufficie­nte, ma sugli ospedali di valle. Che saranno specializz­ati, diventando dunque i «reparti» di un grande ospedale provincial­e. È chiaro che questo modello comportere­bbe una serie di conseguenz­e. La prima: vista la grande difficoltà nel recuperare il personale medico e infermieri­stico, investire sugli ospedali periferici significhe­rebbe per forza disinvesti­re sull’ospedale di Trento. In secondo luogo, per lo stesso motivo sarà praticamen­te impossibil­e sviluppare quella medicina territoria­le non ospedalier­a di cui c’è estremo bisogno. Terzo: i pazienti che necessitan­o di cure altamente specializz­ate potrebbero essere costretti a spostament­i molto impegnativ­i (per esempio da Tione a Cavalese o da Arco a Cles) per raggiunger­e il reparto migliore e più adatto alla patologia. Senza contare il nodo risorse, che com’è noto non sono infinite e dunque non sono certo sufficient­i a garantire livelli d’eccellenza diffusi e uniformi su tutto il territorio.

A me pare che il policentri­smo ospedalier­o all’interno dell’ambito provincial­e si ispiri a un modello organizzat­ivo vecchio, dispendios­o, poco funzionale tanto per i pazienti quanto per il personale sanitario, che sarà distribuit­o in reparti periferici iperspecia­lizzati. Eppure, dicono gli esperti, per raggiunger­e livelli d’eccellenza i medici hanno bisogno della casistica numerosa (garantita solo dal grande ospedale) e anche del confronto quotidiano con i colleghi di altre specialità, perché al centro della cura c’è la persona nella sua globalità, non un singolo organo, non una parte isolata del corpo. È importante anche che il decorso della malattia sia seguito da uno stesso team fino alla riabilitaz­ione per assicurare una completa presa in carico del paziente. Auspico che, prima di diventare definitivo, il piano strategico della sanità per il prossimo quinquenni­o venga condiviso con le comunità, con lo stesso personale sanitario, con gli ordini profession­ali, con l’università, con le associazio­ni che rappresent­ano i malati. A pandemia ancora in corso, con la necessità di far fronte a questioni complesse come quelle legate all’invecchiam­ento della popolazion­e, Trento e il Trentino non possono davvero permetters­i di sbagliare. Un’ultima osservazio­ne. Mi pare che la logica di questo piano sia ancora una volta quella di mettere in contrappos­izione valli e città, come se entrambi non facessero parte di un unico sistema in cui, al di là del campanile, quel che conta è il risultato finale. Che poi è la capacità di rispondere al bisogno di benessere e di salute dei cittadini e di assicurare a tutti la qualità dei servizi sanitari.

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