IL SENSO PRECARIO DEL RIAPRIRE
Uscire dopo molto tempo e vedere tanta gente insieme sciamare di nuovo per piazze e vie suscita una sensazione contrastante. Da un lato il vociare, le risate, la voglia di incontrarsi rincuorano, mettono allegria; dall’altro registro un certo spaesamento, quasi una leggera vertigine. Noi uomini siamo animali tendenzialmente abitudinari, ci adeguiamo, come del resto tutti gli esseri viventi, all’ambiente. E mi rendo conto, mentre cammino tra i rumori di una socialità che si rimette in movimento che non ho più la consuetudine al rumore, alla normalità di una vita che si ritrova.
I silenzi, il deserto di città disabitate, l’aspetto austero di monumenti e fontane che bastavano a se stessi, ha scavato nel profondo, creando scenari e riflessi condizionati che riverberano anche nell’intimità di pensieri e comportamenti.
Non sarà così facile dimenticare e ricominciare. Per questo la repentina ripresa, l’apertura tanto attesa, il via libera rischiano, almeno in un primo momento, di disorientare.
Non sappiamo ancora quanto, di questo ritorno alla normalità, sia vero o fittizio, stabile o solamente provvisorio;
Se questi provvedimenti di riavvio siano il frutto un pericolo definitivamente superato o solo l’apertura temporanea di una valvola di sfogo per evitare che il corpo sociale esploda in rivoltacerto è che l’euforia nasconde anche un battito a vuoto, un’incertezza di futuro che nessuno spritz può esorcizzare. Questo si sente, si respira nell’aria: persino nella provvisorietà estemporanea dell’aperitivo, rito ormai principe di condivisione invalso. E’ in questo ritrovarsi momentaneo e precario che si riflette bene l’incertezza del tempo presente, dove si decide all’ultimo momento dove e con chi senza ipotecare il prosieguo, tenendosi mano libera per cose forse più interessanti che la serata può offrire. Niente più cene in comune, mense: persino quella eucaristica, la messa, quella della domenica, per capirci, è ormai in streaming. Oltretutto il coprifuoco impedisce di programmare troppo in là, trasformandoci tutti in potenziali Cenerentole, il cui destino si segna non alla fatidica mezzanotte: ma alle 22, ora in cui il maleficio trasforma carrozze in zucche e cocchieri in topolini, ridimensionandoci all’istante e riportandoci brutalmente a quella perversa quotidianità che il Covid 19 ha inaugurato. Sono dunque tentativi, prove tecniche di trasmissione verso la riappropriazione di una vita nella quale non sarà facile ritrovare il passo giusto. Questo tentativo sembra essere lasciato alla mera estemporaneità, ad una dimensione semplicemente e puramente soggettiva: alla liturgia - unica in questo momento condivisa, stante il perdurare, di fatto, della chiusura degli stadi – degli aperitivi lunghi, spesso preludi non di cene, ma di ritorni solitari. Nella tradizione che ha segnato la nostra provenienza, il grande trauma – la guerra, la pandemia, la carestia – veniva socializzato ed esorcizzato con riti solenni e partecipati: invocazioni o processioni, preghiere o dedicazioni di altari che fossero. Non erano solo momenti di espressione della fede e della speranza popolari: erano limiti e soglie che distinguevano e scandivano il momento della paura, dell’angoscia, del pericolo da quello del ritrovato ordine entro i cui binari scorre di solito l’esistenza, restituendo così il senso e la misura di un vivere pacificato. La frammentazione, di cui siamo al contempo corresponsabili e vittime, ci inibisce la condivisione di una dimensione sociale forte, profonda, di tenuta: sostituendola con surrogati fugaci e occasionali. Speriamo che basti per superare le ferite profonde cha ha lasciato e lascerà la tempesta del Covid 19, perché nessuno si farà carico del superamento collettivo e simbolico della pandemia. Già lo abbiamo sperimentato nell’infuriare del contagio, dove, di fatto, ognuno è stato abbandonato a se stesso, al proprio disagio e al proprio dolore, secondo il cinico adagio: «Ognuno per sé e Dio per tutti».