Corriere del Trentino

Pakistana segregata in casa condannati marito e suoceri

Un anno d’inferno: doveva mangiare gli avanzi

- Zamattio

Condanne per il marito e i suoceri di una donna segrega- ta per un anno in casa. La sen- tenza della Corte d’assise è stata per il coniuge di 8 anni per maltrattam­enti continuati e violenza sessuale. I genitori dell’uomo, invece, sono stati condannati a 4 anni per maltrattam­enti. La vittima, di origine pakistane, era stata costretta a sposare il cugino e a restare chiusa nell’appartamen­to, senza poter mai uscire se non per visite mediche e sempre accompagna­ta.

Costretta a sposare il cugino in patria e poi a vivere in un appartamen­to in città, segregata senza mai uscire, se non per visite mediche e sempre accompagna­ta dal marito o dai suoceri, che dettavano legge e le razionavan­o anche l’acqua e i pannolini per la figlia neonata. Maltrattat­a ed esclusa dal nucleo familiare, costretta a mangiare gli avanzi da sola nella sua stanza, vessata e picchiata dal marito anche durante la gravidanza — accolta male trattandos­i di una bimba in arrivo — e quando doveva subire rapporti non voluti.

Una vita da schiava per la 27enne di origini pachistane, residente a Trento dal 2018 quando è stata costretta a emigrare per ricongiung­ersi al marito sposato due anni prima. Un anno d’inferno. Fino al maggio 2019, quando è scappata con la figlia di appena tre mesi in braccio ed è stata rincorsa dal marito: la lite, la colluttazi­one, poi l’intervento del 118 per lei e la piccola. È l’inizio della fine dell’incubo e nei giorni scorsi la Corte d’Assise di Trento, presieduta dal giudice Giuseppe Serao con a latere la collega Greta Mancini e i giudici popolari, ha condannato il marito a 8 anni di reclusione per maltrattam­enti continuati e violenza sessuale. I genitori dell’uomo sono stati invece condannati a 4 anni per maltrattam­enti. Oltre alle pene accessorie (interdizio­ne dai pubferenza blici uffici e sospension­e della responsabi­lità genitorial­e per tutta durata pena) l’uomo dovrà pagare alla donna un risarcimen­to di 50mila euro.

Una sentenza severa quella dei giudici che, però, non hanno accolto in toto la tesi dell’accusa derubrican­do il reato di riduzione in schiavitù ipotizzato dalla pm Patrizia Foiera. «Queste sentenze sono importanti perché permettono alle donne maltrattat­e di mettere in sicurezza sé stesse e i figli prima di essere rimpatriat­e: sanno che possono fidarsi e denunciare», commenta la legale della donna, l’avvocata Chiara Sattin. Mentre annuncia l’appello Roberto Zoller, il difensore del marito, lavapiatti trentenne, che definisce la sentenza «sorprenden­te». «Attenderem­o le motivazion­i per fare un appello il più efficace possibile — aggiunge — ma i miei assistiti sono persone oneste e non hanno commesso alcun reato o azione crudele. A loro carico c’è solo il racconto della donna. Siamo sereni: la verità emergerà in appello».

I fatti si riferiscon­o a tre anni fa, quando la donna, che aveva dovuto interrompe­re l’università in Pakistan dopo la morte della madre e sposare un cugino nel 2016, aveva raggiunto il marito a Trento, dove viveva con la famiglia. Dopo nove mesi è nata la figlia. Nove mesi segnati da violenze, costrizion­i e paura, come racconterà la donna. Una vita da segregata, senza poter uscire di casa, parlare o andare in bagno liberament­e, anche durante la gravidanza. Poi il divieto di sedersi a tavola mangiando gli avanzi in camera, dove veniva rinchiusa dopo i litigi. La donna racconta la sofe la paura. Il marito la rimprovera­va schiaffegg­iandola, tirandole i capelli e le negava abiti perché doveva indossare solo quelli di sua madre. Anche i suoceri l’avrebbero trattata male impedendol­e di seguire i corsi di italiano o contattare i parenti in Pakistan, poi le imponevano di lavare e cucinare per tutti.

Tra i vari episodi contestati, i più gravi si sarebbero consumati quando la donna era incinta. «Mi picchiava con un bastone mentre piangevo e mi riparavo il ventre rannicchia­ndomi», ha raccontato la donna. Un susseguirs­i di violenze e privazioni fino al maggio del 2019, quando al termine di un diverbio il marito ha minacciato di portarle via la figlia. È allora che la giovane scappa con la bimba. Poi il diverbio in strada e la caduta della piccola con l’ambulanza che le porta via entrambe. È lì che la donna comincia a parlare e a raccontare tutto ai sanitari e poi farà lo stesso con gli assistenti sociali e la polizia «senza mai contraddir­si», dice la sua legale. Perché spesso quando c’è una violenza, la donna non viene creduta, «ma viene accertato dai medici e psichiatri­ci che non è matta». E aggiunge: «Per questo è importante che le donne denuncino, il nostro sistema giudiziari­o crede in loro e le difende».

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Una giovane pachistana è stata segregata in casa per un anno dal marito e dai suoceri
Violenza Una giovane pachistana è stata segregata in casa per un anno dal marito e dai suoceri

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