Corriere del Trentino

LA POESIA DELLA VITA

- Di Giovanni Montanaro

Sono lì da ore; chiacchier­ano, fanno amicizia, si sfottono, si tengono il posto, che ogni centimetro serve. Guardano l’ora. E appena si aprono i cancelli si mettono a correre, a sessant’anni come a venti, per avvicinars­i il più possibile a Vasco Rossi, appartener­e il più possibile al rito, al corpo della musica. Il concerto deve ancora cominciare, ma in realtà è già cominciato. Comincia prima, da tutta l’attesa, di trovare i biglietti, di prendere la macchina cantando le stesse canzoni, e poi arrivare, parcheggia­re, orientarsi, una giornata di sole, una sigaretta, una ragazza con gli occhi belli. E l’attesa, questa volta, dura da anni. Vasco Rossi inaugura il primo grande tour musicale dopo la pandemia, e lo fa dalla Trento Music Arena di San Vincenzo. C’è folla dappertutt­o, in dodicimila per la preview del fanclub, in centoventi­mila per la prima serata, e tutte le prossime tappe esaurite, in giro per l’Italia. È quasi ovvio, che sia Vasco Rossi il primo a ricomincia­re. Perché è l’unico che fa ancora questi numeri, ci riesce al massimo Jovanotti in spiaggia, ma con tutt’altro show, e qualcun altro, sì, ma in giro per il mondo. Perché la sua gente segue lui, la sua musica, e magari non tutta la musica, non quella degli altri, ma tra tutti i culti italiani, il suo è fedele, unico, cospicuo. Ma soprattutt­o per tutto quello che quella sua musica continua, dopo quarant’anni, ancora a raccontare. Ermetico, semplice, minimale. Erotico. Capace, come i grandissim­i, di far piangere e di far ballare.

Di scrivere in prima persona senza autobiogra­fia, ma con la voce di un uomo in cui altri entrano, si sentono di capire, condivider­e. Perché racconta quel che si vive: in discoteca, guardando la neve dalle finestre, in moto per le strade, quando ci si innamora, quando si ha voglia, necessità, di esagerare, di lasciarsi andare, di andare al massimo e poi accorgersi del minimo. Anime fragili, le cose dentro come un pugno, la vita poi è una sola, le donne che non hanno più voglia di fare la guerra, la television­e e la maleducazi­one. Perché quel suo mondo è intimo, esatto; più di provincia che di città, più di quartiere che di negozi eleganti, è qualcosa di piccolo, ed enorme, senza falsità, ostentazio­ni, pantaloni corti e bambini che nascono, Appennino e oceani, tshirt e la poesia della vita, che mica passa per i grandi concetti, i grandi studi, ma che tocca a tutti. L’amore, soprattutt­o. E soprattutt­o il corpo. Il corpo che contiene il desiderio, la fantasia, l’emozione, la frenesia, che non è mica meno dell’anima, ma che anzi la nutre, la ruggisce. Ed è proprio dal corpo, che si riparte adesso. Dall’idea di tornare vicini, insieme. Dalla voglia di superare le paure (e magari non le buone pratiche che, tragedia a parte, a tanti hanno evitato persino un raffreddor­e negli ultimi due anni). Ma è come se tutti ci dicessimo che vogliamo tornare lì, in mezzo a un prato, tutti insieme, a cantare, a risentire che la vita è quella di prima. E poco importa che sì, forse tutti ci siamo abituati a portare in casa le cose, ad avere dovunque, in ogni momento, tutta la musica che vogliamo, e i più giovani ancora di più, se preferisco­no Spotify (dove i trapper vincono su Vasco Rossi) alle arene. Quel popolo di Vasco Rossi, in realtà, ci smentisce; sono giovani e adulti, maschi e femmine, operai e studenti, e poco importa quali categorie siano più numerose e quali meno. Si ritrovano tutti, a Trento, a cantare le stesse canzoni. E un poco, così, ci ritroviamo anche noi.

Uniti È come se tutti ci dicessimo che vogliamo tornare tutti insieme a cantare

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