LA POESIA DELLA VITA
Sono lì da ore; chiacchierano, fanno amicizia, si sfottono, si tengono il posto, che ogni centimetro serve. Guardano l’ora. E appena si aprono i cancelli si mettono a correre, a sessant’anni come a venti, per avvicinarsi il più possibile a Vasco Rossi, appartenere il più possibile al rito, al corpo della musica. Il concerto deve ancora cominciare, ma in realtà è già cominciato. Comincia prima, da tutta l’attesa, di trovare i biglietti, di prendere la macchina cantando le stesse canzoni, e poi arrivare, parcheggiare, orientarsi, una giornata di sole, una sigaretta, una ragazza con gli occhi belli. E l’attesa, questa volta, dura da anni. Vasco Rossi inaugura il primo grande tour musicale dopo la pandemia, e lo fa dalla Trento Music Arena di San Vincenzo. C’è folla dappertutto, in dodicimila per la preview del fanclub, in centoventimila per la prima serata, e tutte le prossime tappe esaurite, in giro per l’Italia. È quasi ovvio, che sia Vasco Rossi il primo a ricominciare. Perché è l’unico che fa ancora questi numeri, ci riesce al massimo Jovanotti in spiaggia, ma con tutt’altro show, e qualcun altro, sì, ma in giro per il mondo. Perché la sua gente segue lui, la sua musica, e magari non tutta la musica, non quella degli altri, ma tra tutti i culti italiani, il suo è fedele, unico, cospicuo. Ma soprattutto per tutto quello che quella sua musica continua, dopo quarant’anni, ancora a raccontare. Ermetico, semplice, minimale. Erotico. Capace, come i grandissimi, di far piangere e di far ballare.
Di scrivere in prima persona senza autobiografia, ma con la voce di un uomo in cui altri entrano, si sentono di capire, condividere. Perché racconta quel che si vive: in discoteca, guardando la neve dalle finestre, in moto per le strade, quando ci si innamora, quando si ha voglia, necessità, di esagerare, di lasciarsi andare, di andare al massimo e poi accorgersi del minimo. Anime fragili, le cose dentro come un pugno, la vita poi è una sola, le donne che non hanno più voglia di fare la guerra, la televisione e la maleducazione. Perché quel suo mondo è intimo, esatto; più di provincia che di città, più di quartiere che di negozi eleganti, è qualcosa di piccolo, ed enorme, senza falsità, ostentazioni, pantaloni corti e bambini che nascono, Appennino e oceani, tshirt e la poesia della vita, che mica passa per i grandi concetti, i grandi studi, ma che tocca a tutti. L’amore, soprattutto. E soprattutto il corpo. Il corpo che contiene il desiderio, la fantasia, l’emozione, la frenesia, che non è mica meno dell’anima, ma che anzi la nutre, la ruggisce. Ed è proprio dal corpo, che si riparte adesso. Dall’idea di tornare vicini, insieme. Dalla voglia di superare le paure (e magari non le buone pratiche che, tragedia a parte, a tanti hanno evitato persino un raffreddore negli ultimi due anni). Ma è come se tutti ci dicessimo che vogliamo tornare lì, in mezzo a un prato, tutti insieme, a cantare, a risentire che la vita è quella di prima. E poco importa che sì, forse tutti ci siamo abituati a portare in casa le cose, ad avere dovunque, in ogni momento, tutta la musica che vogliamo, e i più giovani ancora di più, se preferiscono Spotify (dove i trapper vincono su Vasco Rossi) alle arene. Quel popolo di Vasco Rossi, in realtà, ci smentisce; sono giovani e adulti, maschi e femmine, operai e studenti, e poco importa quali categorie siano più numerose e quali meno. Si ritrovano tutti, a Trento, a cantare le stesse canzoni. E un poco, così, ci ritroviamo anche noi.
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Uniti È come se tutti ci dicessimo che vogliamo tornare tutti insieme a cantare