«La vita incredibile di Mario Capecchi»
Da giovedì nelle sale l’ultima fatica del regista: «L’America ricostruita qui Vive appartato in un luogo dove ha ricreato l’Alto Adige di quando era bambino» Il regista Faenza racconta il premio Nobel nel film «Hill of vision» girato tra Renon e Merano: «
«Igrandi film cominciano quando usciamo dal cinema». L’emozione di un cinefilo puro come Wim Wenders si riflette tutta in una delle sue frasi più celebri, quella che celebra il cinema delle grandi storie che restano dentro lo spettatore ben oltre le due ore di buio in sala. Con Hill of vision di Roberto Faenza siamo nel territorio delle grandi storie, che raccontano la vita a occhi sgranati. Il film, che uscirà nelle sale il 16 giugno, prende per mano la vita di Mario Capecchi, da bambino di strada in Italia in Alto Adige durante la Seconda Guerra Mondiale, a Premio Nobel per la Medicina con Martin Evans e Oliver Smithies. L’infanzia di strada e l’adolescenza in salita in America sono state interamente filmate in Alto Adige, soprattutto tra il Renon, dove Mario ha vissuto da piccolo, affidato a una famiglia di contadini, e Merano, dove sono stati ricostruiti diversi ambienti tra i quali la scuola, che ha trovato posto nella Caserma Cesare Battisti, e tutta la comunità quacchera in cui Mario trova rifugio, ricostruita perché la Pennsylvania, dal Dopoguerra, non era più quella che Mario ricordava.
Faenza, lei ha scritto anche la sceneggiatura del film, frutto di lunghe conversazioni con Capecchi. Come ha incrociato la sua storia?
«La mia produttrice, Elda Ferri (la stessa della Vita è bella
di Benigni, ndr) aveva letto di questo premio consegnato a Capecchi ed era rimasta colpita da quello che aveva letto sulla sua vita. Così abbiamo deciso di metterci in contatto con lui e abbiamo scoperto questa storia affascinante, al limite dell’incredibile: Capecchi viene affidato a tre anni dalla madre a una famiglia di contadini del Renon, ma a cinque anni si ritrova in mezzo alla strada e fino ai dieci anni vive di espedienti senza mai fare un pasto caldo. Poi miracolosamente la madre lo ritrova a guerra finita, ma a quel punto è stata in un campo di prigionia, pesa quaranta chili e non è in grado di occuparsi di lui, quindi viene affidato agli zii».
Il suo legame con l’Alto
Adige è molto importante.
«Sì, lui oggi vive a Salt Lake City dove ha ricostruito lo stesso ambiente in cui è cresciuto in Alto Adige, vive in una casetta sperduta, non usa l’automobile, né il telefono. Una volta, tornando a casa, è caduto in un precipizio, ma siccome non ha il telefono, lo hanno trovato due giorni dopo solo perché un viandante lo ha sentito gemere e ha chiamato i soccorsi. Un’altra volta è arrivato in stazione a Bologna per un convegno, ma siccome non aveva il telefono non lo trovavano per accoglierlo e lo hanno identificato dalle telecamere. Vive come un eremita, pensa solo alla ricerca».
Pensa che in lui abbia contato di più il sogno americano o l’arte d’arrangiarsi italiana?
«Sicuramente il sogno americano. Se fosse emigrato in un’altra città italiana non sarebbe diventato quello che è».
I migranti che arrivano in Italia oggi potrebbero avere le stesse possibilità?
«Magari in un Paese più prodigo verso gli stranieri».
Perché è attratto spesso da storie ambientate durante la Seconda Guerra Mondiale?
«Sono nato nel ‘43, mia mamma era ebrea e ci siamo rifugiati in cantina. Sono uscito nel ‘45 e il primo contatto che ho avuto sono state due oche che mi hanno aggredito. Un segno che dovevo occuparmene».