Sotto i ponti, la città degli invisibili
Sono una cinquantina, vivono tra l’Adigetto e le Albere: aspettano un permesso
C’è un vento strano che diventa freddo quando scende la notte. Che fa volare gli stracci sotto i ponti tra la ciclabile e l’Adigetto. Dalle parti della biblioteca universitaria, alle Albere, gli studenti bivaccano. A poche centinaia di metri da lì, si apre un altro mondo, quello di chi è nato nella parte sbagliata del mondo, una cinquantina i senzatetto in attesa di permesso di soggiorno. Viaggio nella città degli invisibili con gli attivisti dell’Assemblea antirazzista.
TRENTO C’è un vento strano che diventa freddo quando scende la notte. Che fa volare gli stracci sotto i ponti tra la ciclabile e l’Adigetto. Dalle parti della biblioteca universitaria, alle Albere, gli studenti bivaccano. A poche centinaia di metri da lì, si apre un altro mondo, quello degli invisibili, dei dimenticati, di chi ha il solo «torto», se così si può dire, di essere nato nella parte sbagliata del mondo. E di esserne scappato. Per cercare altrove una vita almeno dignitosa.
Gli attivisti dell’Assemblea antirazzista — composta da diverse realtà politiche e sociali della città di Trento, tra cui il Centro sociale Bruno, la Scuola di italiano liberalaparola, Rifondazione comunista, Mediterranea, volontari dell’accoglienza, insegnanti e singoli cittadini — da tempo incontrano gli stranieri senza casa che dormono oltre il quartiere disegnato dall’architetto genovese Renzo Piano.
Da una parte il luccichio dei bar e dei ristoranti, gli schiamazzi dei ragazzi. Di là il silenzio e le ombre. A dire il vero, da qualche mese gli attivisti non scendevano le rampe sdrucciolevoli che portano alla riva. L’altra sera il ritorno. Anche perché c’è un nuovo fenomeno che hanno monitorato. Secondo quanto raccontano, i richiedenti protezione internazionale che arrivano in città si vedono allungati i tempi tra il primo incontro al Cinformi (il Centro informativo per l’Immigrazione della Provincia) e l’appuntamento in questura per avviare la richiesta che verrà poi esaminata dalla Commissione territoriale e che, se accettata, consentirà l’inserimento nei progetti di accoglienza.
Sono soprattutto pakistani, più di una cinquantina. «Fino a qualche tempo fa — riflette uno degli attivisti, sono in tre e preferiscono mantenere l’anonimato — passavano pochi giorni. Adesso si arriva anche a due mesi di attesa. E i richiedenti vivono in un limbo snervante. Vorremmo riuscire a capire il perché. All’inizio pensavamo che la situazione fosse determinata dalla crisi legata alla guerra in Ucraina con il conseguente arrivo dei profughi, ma non è così. Non vorremmo, visto che Trento passa per una città accogliente rispetto ad altre realtà, che si stia tentando di scoraggiare l’arrivo dei migranti». Un sospetto legato anche ad alcune decisioni della giunta provinciale a guida leghista di Maurizio Fugatti, che aveva provato a smantellare il Cinformi salvo poi fare marcia indietro, rendendosi conto probabilmente che altrimenti la situazione non sarebbe stata gestibile.
Ahmed (il nome è di fantasia) è scappato dalla sua casa, in Pakistan, sei anni fa, «per motivi politici», afferma. Sono posti dove basta avere un’idea diversa da altri per doversi guardare continuamente le spalle. Non ha più di trent’anni. È andato in Iran, poi in Turchia per «approdare» in Serbia e da qui in Bosnia, risalendo la Croazia e la Slovenia. Sei anni per arrivare a Trento, probabilmente seguendo il passa parola di altri connazionali. Ha fatto «il game», tra Bosnia e Croazia, ed è riuscito alla fine, attraverso la Rotta balcanica, ad arrivare in Italia. I poliziotti croati menano, più di un’indagine lo ha accertato. E rispediscono indietro. A lui è andata «bene», se così si può dire. Ed è finito a dormire sotto un ponte in riva al fiume, non nel campo profughi di Lipa a Bihac che è come fosse una galera, dove i migranti stanno anche per anni.
Il vento rende instabili i rifugi di fortuna sotto i ponti.
Qualche telo ancorato a terra, quattro materassi sudici. Aspettando il mattino. E una risposta. Magari una tenda. Senza il cedolino, dopo un paio di mesi dall’averlo in mano, manco si può provare a cercare lavoro. «Che poi, in questura, si debba anche esibire un certificato di domicilio è decisamente un paradosso — riflettono gli attivisti — Quale domicilio? Il pericolo è che questi ragazzi vengano sfruttati da qualcuno che offrendo fittiziamente casa chiede soldi in cambio della dichiarazione di domicilio. È già successo».
Anche Khan (il nome, anche in questo caso, è di fantasia) viene dal Pakistan. Lui è qui da qualche anno e il permesso di soggiorno ce l’aveva. Poi ha perso l’impiego e addio al foglio di carta. Ed è finito per strada. Sorride, ormai c’è abituato a questa situazione. «Qualcosa succederà, a Dio piacendo», aggiunge.
I volontari portano coperte per aiutare ad affrontare le notti all’aperto. Con alcuni di questi ragazzi della jungle trentina hanno confidenza. Più in là ci sono gli africani. Un sorriso, un saluto e via. I rifiuti sono dappertutto. E anche i conigli sono tornati. Perfino loro, quando invasero il cimitero, ebbero più attenzione di questi «miserabili» dei giorni nostri.
Su, poco lontano, sul ponte, si fa festa, si balla il folk irlandese. Giù, sulla riva dell’Adigetto, ci si stringe nelle coperte. Anche a Trento c’è un mondo di sopra e un altro di sotto. Da tempo.
Ahmed
Sono scappato dal Pakistan sei anni fa per motivi politici Sono passato per Iran e Turchia
Khan
Avevo il permesso di soggiorno, ma l’ho perso Qualcosa succederà, a Dio piacendo
Gli attivisti
I tempi per l’appuntamento in questura si sono allungati Vogliamo capire il perché
L’impegno
L’assemblea Antirazzista incontra da tempo gli stranieri che dormono all’aperto