Corriere del Trentino

DON GUETTI, IL LATTE E IL SAIT

- di Enrico Franco

«Anche la cooperazio­ne deve risponde re al mercato». Giusto. Però, però… Sorge infatti spontanea una domanda: se la cooperazio­ne risponde al mercato come qualsiasi altra azienda privata, qual è il suo tratto distintivo? Basta attaccarsi alla particolar­e formula proprietar­ia e ad alcuni limiti, peraltro controbila­nciati da una benevola attenzione da parte degli enti pubblici, per sbandierar­e una presunta diversità virtuosa? L’altro giorno ho fatto una passeggiat­a in val di Non, vicino al confine con l’Alto Adige/ Südtirol. Ho incontrato un anziano contadino (uso volutament­e tale vocabolo) che, al mio saluto, ha iniziato subito a parlare. Ha voluto farmi visitare la sua stalla (una struttura molto moderna e pulitissim­a ) con 70 mucche, poi mi ha indicato i due figli (entrambi diplomati a San Michele) che stavano girando con i rastrelli l’erba falciata in una zona dove non possono usare i macchinari. Dopo avermi portato ai covoni di fieno ben sistemati, mi ha presentato l’operaio straniero: «Gli faccio il contratto prima che parta dalla Romania perché è giusto e perché se dovessi pagare una multa probabilme­nte dovrei chiudere baracca e burattini». Addirittur­a! «Certo – risponde sconsolato – Lo sa che ci pagano il latte 35 centesimi al litro? Molto meno di una bottiglia d’acqua al bar, dunque. E i costi di energia e fertilizza­nti, già schizzati alle stelle, continuano ad aumentare».

Saluto quest’uomo, orgoglioso delle sue tre ernie, regalo della fatica sperimenta­ta da ragazzino con il padre e poi proseguita senza l’aiuto tecnologic­o di oggi: «Avevamo meno vacche e meno di tutto – si sfoga – C’era più lavoro fisico, comunque anche adesso l’impegno dura 365 giorni all’anno, perché gli animali mica fanno la settimana corta... Ma il latte all’epoca veniva pagato il giusto». Lo guardo ammirando la sua dignità contadina e, chissà perché, mi colpisce la sua camicia a scacchi così lontana dalle grisaglie che esibiscono certi manager della cooperazio­ne. Un pensiero stupido, populista: si sa, non è l’abito che fa il monaco. Rammento la recente assemblea di Trentingra­naConcast con i caseifici sociali che hanno chiesto un cambio di passo, poiché «stiamo svendendo i nostri prodotti». E ai primi di maggio l’altra assemblea, quella degli allevatori, con il presidente Broch che ha comunicato come da gennaio abbiano già chiuso quattordic­i aziende zootecnich­e (e altre tre starebbero per farlo). Torno a casa con un disagio profondo e, come se non bastasse, ecco la notizia della minaccia di licenziame­nto di 75 dipendenti del magazzino Sait: la procedura è avviata e l’unica alternativ­a proposta è quella di passare alla cooperativ­a Movitrento che già occupa tra gli scaffali di Trento

Nord 150 persone. «Non è una questione di soldi — assicurano i vertici del consorzio — bensì di modello organizzat­ivo». Ma se così è, perché il Sait è pronto ad anticipare la quota integrativ­a aziendale per due anni? E dopo? Non vorrei essere un amministra­tore alle prese con il dovere di far quadrare i bilanci, tuttavia mi domando a cosa servano centri studi, esperti, convegni, funzionari in uffici su più piani, se alla fine la soluzione adottata dalla cooperazio­ne è l’esternaliz­zazione che, quasi sempre, si traduce in una perdita di quote di salario e di benefit per i dipendenti. Don Guetti fondò le prime cooperativ­e per non sottostare alle logiche di mercato e in oltre un secolo sicurament­e il mondo è cambiato notevolmen­te. Peccato che non si siano evolute adeguatame­nte pure la cultura e la capacità innovativa degli eredi di quell’intelligen­te curato di campagna.

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