DON GUETTI, IL LATTE E IL SAIT
«Anche la cooperazione deve risponde re al mercato». Giusto. Però, però… Sorge infatti spontanea una domanda: se la cooperazione risponde al mercato come qualsiasi altra azienda privata, qual è il suo tratto distintivo? Basta attaccarsi alla particolare formula proprietaria e ad alcuni limiti, peraltro controbilanciati da una benevola attenzione da parte degli enti pubblici, per sbandierare una presunta diversità virtuosa? L’altro giorno ho fatto una passeggiata in val di Non, vicino al confine con l’Alto Adige/ Südtirol. Ho incontrato un anziano contadino (uso volutamente tale vocabolo) che, al mio saluto, ha iniziato subito a parlare. Ha voluto farmi visitare la sua stalla (una struttura molto moderna e pulitissima ) con 70 mucche, poi mi ha indicato i due figli (entrambi diplomati a San Michele) che stavano girando con i rastrelli l’erba falciata in una zona dove non possono usare i macchinari. Dopo avermi portato ai covoni di fieno ben sistemati, mi ha presentato l’operaio straniero: «Gli faccio il contratto prima che parta dalla Romania perché è giusto e perché se dovessi pagare una multa probabilmente dovrei chiudere baracca e burattini». Addirittura! «Certo – risponde sconsolato – Lo sa che ci pagano il latte 35 centesimi al litro? Molto meno di una bottiglia d’acqua al bar, dunque. E i costi di energia e fertilizzanti, già schizzati alle stelle, continuano ad aumentare».
Saluto quest’uomo, orgoglioso delle sue tre ernie, regalo della fatica sperimentata da ragazzino con il padre e poi proseguita senza l’aiuto tecnologico di oggi: «Avevamo meno vacche e meno di tutto – si sfoga – C’era più lavoro fisico, comunque anche adesso l’impegno dura 365 giorni all’anno, perché gli animali mica fanno la settimana corta... Ma il latte all’epoca veniva pagato il giusto». Lo guardo ammirando la sua dignità contadina e, chissà perché, mi colpisce la sua camicia a scacchi così lontana dalle grisaglie che esibiscono certi manager della cooperazione. Un pensiero stupido, populista: si sa, non è l’abito che fa il monaco. Rammento la recente assemblea di TrentingranaConcast con i caseifici sociali che hanno chiesto un cambio di passo, poiché «stiamo svendendo i nostri prodotti». E ai primi di maggio l’altra assemblea, quella degli allevatori, con il presidente Broch che ha comunicato come da gennaio abbiano già chiuso quattordici aziende zootecniche (e altre tre starebbero per farlo). Torno a casa con un disagio profondo e, come se non bastasse, ecco la notizia della minaccia di licenziamento di 75 dipendenti del magazzino Sait: la procedura è avviata e l’unica alternativa proposta è quella di passare alla cooperativa Movitrento che già occupa tra gli scaffali di Trento
Nord 150 persone. «Non è una questione di soldi — assicurano i vertici del consorzio — bensì di modello organizzativo». Ma se così è, perché il Sait è pronto ad anticipare la quota integrativa aziendale per due anni? E dopo? Non vorrei essere un amministratore alle prese con il dovere di far quadrare i bilanci, tuttavia mi domando a cosa servano centri studi, esperti, convegni, funzionari in uffici su più piani, se alla fine la soluzione adottata dalla cooperazione è l’esternalizzazione che, quasi sempre, si traduce in una perdita di quote di salario e di benefit per i dipendenti. Don Guetti fondò le prime cooperative per non sottostare alle logiche di mercato e in oltre un secolo sicuramente il mondo è cambiato notevolmente. Peccato che non si siano evolute adeguatamente pure la cultura e la capacità innovativa degli eredi di quell’intelligente curato di campagna.