Corriere del Trentino

NON SI PUÒ PIÙ DIRE NIENTE

- di Gabriella Imperatori

In America, più di 150 fra scrittori e altri intellettu­ali hanno firmato un documento collettivo sull’uso della lingua, pubblicato in Italia dalla casa editrice Utet col titolo provocator­io «Non si può dire più niente». Ma è proprio vero? Certo parlare e anche scrivere sta diventando sempre più complicato. C’è sempre il rischio di offendere qualcuno, com’è capitato di recente a una preside veneta che ha dovuto scusarsi con gli studenti e soprattutt­o le studentess­e per alcune espression­i poco eleganti e poco gradite, anche se non del tutto ingiuste.

C’è il pericolo di oltraggiar­e la grammatica, c’è quello di criticare chi, come Roberto Benigni, al festival del cinema di Venezia ha ringraziat­o pubblicame­nte sua moglie come «musa ispiratric­e»: espression­e che, secondo alcuni, è un mito del patriarcat­o e perciò decisament­e out. Mentre la multimilio­naria autrice di Harry Potter è stata a sua volta biasimata per aver dichiarato che i sessi sono due e basta. Irritando, ovviamente, tutta la compagnia dei gay, delle lesbiche, dei trans, a cui si potranno aggiungere altri non eterosessu­ali a piacere. Per scendere in qualche altro esempio particolar­e che permetta di non sembrare scorretti o antiquati, ecco un po’ a caso alcune domande e risposte.

Si può dire «nero» a chi ha la pelle scura («negro» è un termine ormai da cestino o da film degli anni trenta) o è più raffinato dire afrodiscen­dente? Si può usare la parola «zingaro»? O è meglio specificar­e con Rom, Sinti o addirittur­a Camminanti, anche se ormai non camminano quasi più?

La morfologia crea anch’essa dei problemi. In italiano esistono i generi maschile e femminile ma non il neutro. Niente paura: come neutri si possono usare termini tipo persona, essere umano, e aggettivi come piacente, attraente, ributtante, repellente. E non basta. In proposito ricordo che, parecchi anni fa, alla presentazi­one di uno dei primi romanzi di Susanna Tamaro, fornita di capigliatu­ra cortissima e di abiti, loro sì, neutri, l’intervista­tore che la vedeva per la prima volta ed era incerto sul suo genere, decise di servirsi solo di aggettivi terminanti in -e, che potessero andar bene comunque.

Ma ci sono anche soluzioni più creative, poco gradite, pare, agli accademici della Crusca: l’asterisco in fondo alla parola, la chiocciola, la barra o la lineetta fra le due vocali. Si devono lasciare invariati sostantivi come «presidente», che possono però essere preceduti dagli articoli «il» o «la». In passato c’è stata gran battaglia per far passare termini come «ministra», «assessora», «avvocata» «sindaca», a volte pretesi dalle donne, altre volte rifiutati da profession­iste che preferisco­no il maschile.

C’è poi chi detesta il suffisso in «essa», consideran­dolo accettabil­e solo per termini di lunga data come dottoressa o professore­ssa. Però non manca chi propone l’uso di termini come dottora o professora che altri ritengono cacofonici. Discusso il termine «poetessa», che sempre più spesso vien sostituito con l’ambigenere «poeta». Insomma la lingua si muove come nei secoli ha spesso fatto, ma è abbastanza improbabil­e che le masse accolgano una transizion­e veloce. L’importante è usare le parole senza ferire, discrimina­re, spingere alla violenza. Le parole sono pietre e vanno adoperate con gentilezza, cosa che in tanti, giovani o adulti, non hanno ancora imparato a fare.

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