NON SI PUÒ PIÙ DIRE NIENTE
In America, più di 150 fra scrittori e altri intellettuali hanno firmato un documento collettivo sull’uso della lingua, pubblicato in Italia dalla casa editrice Utet col titolo provocatorio «Non si può dire più niente». Ma è proprio vero? Certo parlare e anche scrivere sta diventando sempre più complicato. C’è sempre il rischio di offendere qualcuno, com’è capitato di recente a una preside veneta che ha dovuto scusarsi con gli studenti e soprattutto le studentesse per alcune espressioni poco eleganti e poco gradite, anche se non del tutto ingiuste.
C’è il pericolo di oltraggiare la grammatica, c’è quello di criticare chi, come Roberto Benigni, al festival del cinema di Venezia ha ringraziato pubblicamente sua moglie come «musa ispiratrice»: espressione che, secondo alcuni, è un mito del patriarcato e perciò decisamente out. Mentre la multimilionaria autrice di Harry Potter è stata a sua volta biasimata per aver dichiarato che i sessi sono due e basta. Irritando, ovviamente, tutta la compagnia dei gay, delle lesbiche, dei trans, a cui si potranno aggiungere altri non eterosessuali a piacere. Per scendere in qualche altro esempio particolare che permetta di non sembrare scorretti o antiquati, ecco un po’ a caso alcune domande e risposte.
Si può dire «nero» a chi ha la pelle scura («negro» è un termine ormai da cestino o da film degli anni trenta) o è più raffinato dire afrodiscendente? Si può usare la parola «zingaro»? O è meglio specificare con Rom, Sinti o addirittura Camminanti, anche se ormai non camminano quasi più?
La morfologia crea anch’essa dei problemi. In italiano esistono i generi maschile e femminile ma non il neutro. Niente paura: come neutri si possono usare termini tipo persona, essere umano, e aggettivi come piacente, attraente, ributtante, repellente. E non basta. In proposito ricordo che, parecchi anni fa, alla presentazione di uno dei primi romanzi di Susanna Tamaro, fornita di capigliatura cortissima e di abiti, loro sì, neutri, l’intervistatore che la vedeva per la prima volta ed era incerto sul suo genere, decise di servirsi solo di aggettivi terminanti in -e, che potessero andar bene comunque.
Ma ci sono anche soluzioni più creative, poco gradite, pare, agli accademici della Crusca: l’asterisco in fondo alla parola, la chiocciola, la barra o la lineetta fra le due vocali. Si devono lasciare invariati sostantivi come «presidente», che possono però essere preceduti dagli articoli «il» o «la». In passato c’è stata gran battaglia per far passare termini come «ministra», «assessora», «avvocata» «sindaca», a volte pretesi dalle donne, altre volte rifiutati da professioniste che preferiscono il maschile.
C’è poi chi detesta il suffisso in «essa», considerandolo accettabile solo per termini di lunga data come dottoressa o professoressa. Però non manca chi propone l’uso di termini come dottora o professora che altri ritengono cacofonici. Discusso il termine «poetessa», che sempre più spesso vien sostituito con l’ambigenere «poeta». Insomma la lingua si muove come nei secoli ha spesso fatto, ma è abbastanza improbabile che le masse accolgano una transizione veloce. L’importante è usare le parole senza ferire, discriminare, spingere alla violenza. Le parole sono pietre e vanno adoperate con gentilezza, cosa che in tanti, giovani o adulti, non hanno ancora imparato a fare.