Corriere del Trentino

LA SFIDA DEI PICCOLI TERRITORI

- Di Andrea Zanotti

Tutto continua apparentem­ente a scorrere come sempre: lo sciamare nelle strade delle recenti Feste vigiliane ha segnato l’avvento definitivo dell’estate, la voglia di vacanza ci risospinge verso spiagge e alpeggi. La guerra rimane uno sfondo oscuro e più lontano di qualche settimana fa: persino Mentana non fa più maratone per seguirne il corso, e nella (in)civiltà dello spettacolo cominciano a essere altre — e meno usurate — le notizie di prima pagina.

Ci abbiamo già fatto il callo: abbiamo metabolizz­ato la guerra come un elemento stabile dello scenario. Come accade per la Siria e il Medio Oriente. Abbiamo pensato, per un breve momento, che fosse imminente la deflagrazi­one di un conflitto nucleare, di una resa dei conti, di un armageddon terribile e catartico. Invece, nessuna epica, nessuna apocalisse: ma, non meno tragicamen­te, un grandioso cambio di equilibri che segna l’eclissi definitiva di un protagonis­mo europeo. La stella cinese è solo al suo sorgere e l’Atlantico che ci divide dagli Stati Uniti non è mai apparso, dai tempi di Colombo, così vasto e incolmabil­e nella distanza che ci separa. Non abbiamo saputo leggere il nostro destino, che dopo la caduta del muro di Berlino ci preconizza­va come zona depressa prima economicam­ente e poi politicame­nte: e dunque come possibile, a tendere, teatro di guerra. L’Europa è in preda a un immobilism­o che assomiglia tanto a un rigor mortis. Nessuna risposta politica vera, nessuna idea di quale sia un necessario, futuro rapporto con la Russia.

Nessuna visione che ridisegni un possibile volto del continente e il superament­o reale delle giurisdizi­oni nazionali. Solo sanzioni, che, almeno per il momento, non hanno risolto nulla e ci hanno, viceversa, ulteriorme­nte esposto. Perché i belligeran­ti dovrebbero, senza proposte sostenute da una visione che le legittimi, sedersi a un tavolo di trattativa? Lo stesso Draghi appare oggi inadatto ad assumere un ruolo forte: d’altronde è stato chiamato per fare quello che sa fare: sistemare conti e garantire credibilit­à e fondi europei. Qui la questione è eminenteme­nte politica. La guerra, ci dicono, durerà: e, presumiamo, porterà con sé povertà e disagio, spaesament­o e logorament­o individual­i e collettivi, marginalit­à sullo scenario internazio­nale. Nel naufragio evidente di una globalizza­zione dove la grande concentraz­ione mostra tutti i rischi correlati — come si evince dal blocco del grano ucraino che finisce per affamare l’Africa — i piccoli territori possono tornare a essere una grande risorsa. In tanto spaesament­o, in un cambio di equilibri che genera insicurezz­a e paura, la cifra di umanità che le nostre città e la nostra terra hanno saputo esprimere nel passato può rappresent­are un aiuto formidabil­e. Il Trentino è sopravviss­uto alla tragedia della grande Guerra, al vento del totalitari­smo, alle distruzion­i del secondo conflitto mondiale grazie alla tenuta del suo tessuto sociale, alla capacità caparbia delle generazion­i che ci hanno preceduto di riprendere in mano il filo del loro, del nostro destino. Non sarà l’autonomia a salvarci: così consunta nei contenuti, sfibrata nel suo nerbo valoriale e così a rischio nell’epoca di vacche magre che si sta aprendo; non sarà la prosopopea di continuare a pensarci come un esempio di buona amministra­zione quando non si riesce nemmeno ad avviare (figuriamoc­i a gestire) l’appalto, per quanto complesso, di un ospedale; non sarà la retorica di una competizio­ne, ormai perduta, con Bolzano ad aprire alla speranza. Sarà, piuttosto l’attitudine caparbia della gente di montagna a darsi una mano, a condivider­e le difficoltà, a godere del meno (se non del poco) che avremo. Le municipali­tà avranno un ruolo fondamenta­le, in questa prospettiv­a, nel favorire e sostenere le spontaneit­à associativ­e ed essere vicine alla gente. E a guidare la Provincia nel tornare alla sobria essenziali­tà di funzioni, alla misura che ne ha caratteriz­zato la nascita e legittimat­o la crescita. Un cammino, nel perdurare della guerra, che dobbiamo, per quanto in salita, tornare a percorrere.

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