LA SFIDA DEI PICCOLI TERRITORI
Tutto continua apparentemente a scorrere come sempre: lo sciamare nelle strade delle recenti Feste vigiliane ha segnato l’avvento definitivo dell’estate, la voglia di vacanza ci risospinge verso spiagge e alpeggi. La guerra rimane uno sfondo oscuro e più lontano di qualche settimana fa: persino Mentana non fa più maratone per seguirne il corso, e nella (in)civiltà dello spettacolo cominciano a essere altre — e meno usurate — le notizie di prima pagina.
Ci abbiamo già fatto il callo: abbiamo metabolizzato la guerra come un elemento stabile dello scenario. Come accade per la Siria e il Medio Oriente. Abbiamo pensato, per un breve momento, che fosse imminente la deflagrazione di un conflitto nucleare, di una resa dei conti, di un armageddon terribile e catartico. Invece, nessuna epica, nessuna apocalisse: ma, non meno tragicamente, un grandioso cambio di equilibri che segna l’eclissi definitiva di un protagonismo europeo. La stella cinese è solo al suo sorgere e l’Atlantico che ci divide dagli Stati Uniti non è mai apparso, dai tempi di Colombo, così vasto e incolmabile nella distanza che ci separa. Non abbiamo saputo leggere il nostro destino, che dopo la caduta del muro di Berlino ci preconizzava come zona depressa prima economicamente e poi politicamente: e dunque come possibile, a tendere, teatro di guerra. L’Europa è in preda a un immobilismo che assomiglia tanto a un rigor mortis. Nessuna risposta politica vera, nessuna idea di quale sia un necessario, futuro rapporto con la Russia.
Nessuna visione che ridisegni un possibile volto del continente e il superamento reale delle giurisdizioni nazionali. Solo sanzioni, che, almeno per il momento, non hanno risolto nulla e ci hanno, viceversa, ulteriormente esposto. Perché i belligeranti dovrebbero, senza proposte sostenute da una visione che le legittimi, sedersi a un tavolo di trattativa? Lo stesso Draghi appare oggi inadatto ad assumere un ruolo forte: d’altronde è stato chiamato per fare quello che sa fare: sistemare conti e garantire credibilità e fondi europei. Qui la questione è eminentemente politica. La guerra, ci dicono, durerà: e, presumiamo, porterà con sé povertà e disagio, spaesamento e logoramento individuali e collettivi, marginalità sullo scenario internazionale. Nel naufragio evidente di una globalizzazione dove la grande concentrazione mostra tutti i rischi correlati — come si evince dal blocco del grano ucraino che finisce per affamare l’Africa — i piccoli territori possono tornare a essere una grande risorsa. In tanto spaesamento, in un cambio di equilibri che genera insicurezza e paura, la cifra di umanità che le nostre città e la nostra terra hanno saputo esprimere nel passato può rappresentare un aiuto formidabile. Il Trentino è sopravvissuto alla tragedia della grande Guerra, al vento del totalitarismo, alle distruzioni del secondo conflitto mondiale grazie alla tenuta del suo tessuto sociale, alla capacità caparbia delle generazioni che ci hanno preceduto di riprendere in mano il filo del loro, del nostro destino. Non sarà l’autonomia a salvarci: così consunta nei contenuti, sfibrata nel suo nerbo valoriale e così a rischio nell’epoca di vacche magre che si sta aprendo; non sarà la prosopopea di continuare a pensarci come un esempio di buona amministrazione quando non si riesce nemmeno ad avviare (figuriamoci a gestire) l’appalto, per quanto complesso, di un ospedale; non sarà la retorica di una competizione, ormai perduta, con Bolzano ad aprire alla speranza. Sarà, piuttosto l’attitudine caparbia della gente di montagna a darsi una mano, a condividere le difficoltà, a godere del meno (se non del poco) che avremo. Le municipalità avranno un ruolo fondamentale, in questa prospettiva, nel favorire e sostenere le spontaneità associative ed essere vicine alla gente. E a guidare la Provincia nel tornare alla sobria essenzialità di funzioni, alla misura che ne ha caratterizzato la nascita e legittimato la crescita. Un cammino, nel perdurare della guerra, che dobbiamo, per quanto in salita, tornare a percorrere.