LA CARTA, UN PATTO LIMPIDO
Più d’uno, noto alle cronache quotidiane, ha affermato che la Costituzione non impone di dirsi antifascisti. A non voler andare tanto per il sottile, ci può stare. Tuttavia, se si riflette con animo sereno, si può affermare che non è un discorso risolutivo. Infatti, ciò che conta non è dirsi, ma comportarsi da antifascista. La Costituzione lo pretende – è naturale – sia là dove vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» (XII disposizione transitoria e finale); sia là dove, ad esempio, afferma la libertà di manifestazione del pensiero (articolo 21) e il diritto di tutti i cittadini di «associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (articolo 49). Il fascismo e il suo vate ritenevano di imporre regole di segno esattamente opposto. Per cui, se è vero che la Costituzione non stabilisce espressamente nulla sul punto, è incontestabile che lo esige, con una limpidezza cristallina, di per sé: a causa della sua stessa ragion d’essere. Patto tra generazioni, che fa suo l’insegnamento di Giuseppe Compagnoni, secondo il quale una Costituzione e il suo studio sono «scienza del popolo libero». Che il fascismo – non mi interessa formulare giudizi di valore, perché mi limito a ricordare quale era il suo orizzonte culturale – fosse un regime politico contrario al primato della persona, al pluralismo dei corpi sociali, all’autonomia e alla separazione tra politica e giurisdizione e ad altro ancora non v’è dubbio.
Tuttavia, visto quel che quotidianamente si dice e si scrive, vale la pena di richiamare alla memoria qualche ricordo, dal momento che ci sono vistose differenze tra il dire e il fare, per poi contraddirsi, quando si evita di distinguere, rigorosamente, quel che si dice da quel che si fa, prescindendo oltretutto dal fattore tempo. Dal tempo, in cui al potere era il fascismo oppure dal tempo repubblicano.
La storia non è maestra di vita, ma qualcosa comunque insegna. Tanto per cominciare, non dimentichiamo l’umanissima figura di Pietro apostolo: «Signore, sono pronto ad andare con te in prigione e alla morte». Ma, alle prese con una serva, «Pietro negò dicendo: «Donna, io non lo conosco». Dà la misura di quel che siamo e di quel che sono stati (salvo rarissime eccezioni) gli italiani durante il ventennio, che va da ottobre 1922 a luglio 1943. Molti gerarchi, presenti alla seduta del Gran Consiglio del 25 luglio, hanno successivamente (al tempo della Repubblica) detto e scritto di sé per avvalorare la tesi del loro blando coinvolgimento col regime: penso, tra gli altri, ai fascistissimi Dino Grandi e Giuseppe Bottai. Ma vi fu chi — Gaetano Azzariti — addirittura divenne stretto collaboratore di Palmiro Togliatti, giudice e secondo presidente della Corte costituzionale. Il suo busto rimase a Palazzo della Consulta, in bella vista, finché non fu rimosso a causa di una serie di scritti critici di Gian Antonio Stella, il quale ritenne aberrante che un simile onore fosse attribuito a chi fu a capo dell’Ufficio legislativo del dittatore, solerte redattore delle leggi razziali del 1938 e presidente del Tribunale della razza. È un fatto, di cui non riesco a capacitarmi. Sul versante opposto, occupato da chi pagò caro l’essere (durante il fascismo) antifascista, pochi protagonisti. L’8 ottobre 1931 Mussolini impose ai professori universitari il giuramento di fedeltà. Su 1.250 dissero di no in 12. Alcuni militanti — comunisti, socialisti e poi azionisti — furono imprigionati o mandati al confino. Non legioni, ma pochi, come riconobbe in una nota intervista sull’antifascismo Giorgio Amendola. Eccezione all’eccezione, in anticipo rispetto ai no del 1931, Gaetano Salvemini, Francesco Saverio Nitti e Silvio Trentin, che abbandonarono l’insegnamento universitario e l’Italia già nel 1925. Silvio Trentin era di San Donà di Piave e insegnava a Ca’ Foscari materie giuridiche. Si dimise e se ne andò in Francia, esule per 18 anni. Visse in ristrettezze facendo il tipografo e il libraio. Componendo opere giuridiche esemplari, ispirate ai principi di autonomia e libertà, lui ardente federalista. Diede prova — come scrisse François Geny — di «un’energia morale indomabile», che ci obbliga a prendere sul serio un esemplare appunto di Altan. Una vignetta del 1996 raffigura un intellettuale, il quale formula a sé stesso un auspicio: «Auguro a questo governo di durare a lungo, così ho il tempo di rivoltare gabbana senza dare nell’occhio». Nulla contro la retorica dell’antifascismo, che rimane — per il momento ed è da augurarsi per sempre — retorica.