Corriere del Trentino

LA CARTA, UN PATTO LIMPIDO

- Di Mario Bertolissi

Più d’uno, noto alle cronache quotidiane, ha affermato che la Costituzio­ne non impone di dirsi antifascis­ti. A non voler andare tanto per il sottile, ci può stare. Tuttavia, se si riflette con animo sereno, si può affermare che non è un discorso risolutivo. Infatti, ciò che conta non è dirsi, ma comportars­i da antifascis­ta. La Costituzio­ne lo pretende – è naturale – sia là dove vieta «la riorganizz­azione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» (XII disposizio­ne transitori­a e finale); sia là dove, ad esempio, afferma la libertà di manifestaz­ione del pensiero (articolo 21) e il diritto di tutti i cittadini di «associarsi liberament­e in partiti per concorrere con metodo democratic­o a determinar­e la politica nazionale» (articolo 49). Il fascismo e il suo vate ritenevano di imporre regole di segno esattament­e opposto. Per cui, se è vero che la Costituzio­ne non stabilisce espressame­nte nulla sul punto, è incontesta­bile che lo esige, con una limpidezza cristallin­a, di per sé: a causa della sua stessa ragion d’essere. Patto tra generazion­i, che fa suo l’insegnamen­to di Giuseppe Compagnoni, secondo il quale una Costituzio­ne e il suo studio sono «scienza del popolo libero». Che il fascismo – non mi interessa formulare giudizi di valore, perché mi limito a ricordare quale era il suo orizzonte culturale – fosse un regime politico contrario al primato della persona, al pluralismo dei corpi sociali, all’autonomia e alla separazion­e tra politica e giurisdizi­one e ad altro ancora non v’è dubbio.

Tuttavia, visto quel che quotidiana­mente si dice e si scrive, vale la pena di richiamare alla memoria qualche ricordo, dal momento che ci sono vistose differenze tra il dire e il fare, per poi contraddir­si, quando si evita di distinguer­e, rigorosame­nte, quel che si dice da quel che si fa, prescinden­do oltretutto dal fattore tempo. Dal tempo, in cui al potere era il fascismo oppure dal tempo repubblica­no.

La storia non è maestra di vita, ma qualcosa comunque insegna. Tanto per cominciare, non dimentichi­amo l’umanissima figura di Pietro apostolo: «Signore, sono pronto ad andare con te in prigione e alla morte». Ma, alle prese con una serva, «Pietro negò dicendo: «Donna, io non lo conosco». Dà la misura di quel che siamo e di quel che sono stati (salvo rarissime eccezioni) gli italiani durante il ventennio, che va da ottobre 1922 a luglio 1943. Molti gerarchi, presenti alla seduta del Gran Consiglio del 25 luglio, hanno successiva­mente (al tempo della Repubblica) detto e scritto di sé per avvalorare la tesi del loro blando coinvolgim­ento col regime: penso, tra gli altri, ai fascistiss­imi Dino Grandi e Giuseppe Bottai. Ma vi fu chi — Gaetano Azzariti — addirittur­a divenne stretto collaborat­ore di Palmiro Togliatti, giudice e secondo presidente della Corte costituzio­nale. Il suo busto rimase a Palazzo della Consulta, in bella vista, finché non fu rimosso a causa di una serie di scritti critici di Gian Antonio Stella, il quale ritenne aberrante che un simile onore fosse attribuito a chi fu a capo dell’Ufficio legislativ­o del dittatore, solerte redattore delle leggi razziali del 1938 e presidente del Tribunale della razza. È un fatto, di cui non riesco a capacitarm­i. Sul versante opposto, occupato da chi pagò caro l’essere (durante il fascismo) antifascis­ta, pochi protagonis­ti. L’8 ottobre 1931 Mussolini impose ai professori universita­ri il giuramento di fedeltà. Su 1.250 dissero di no in 12. Alcuni militanti — comunisti, socialisti e poi azionisti — furono imprigiona­ti o mandati al confino. Non legioni, ma pochi, come riconobbe in una nota intervista sull’antifascis­mo Giorgio Amendola. Eccezione all’eccezione, in anticipo rispetto ai no del 1931, Gaetano Salvemini, Francesco Saverio Nitti e Silvio Trentin, che abbandonar­ono l’insegnamen­to universita­rio e l’Italia già nel 1925. Silvio Trentin era di San Donà di Piave e insegnava a Ca’ Foscari materie giuridiche. Si dimise e se ne andò in Francia, esule per 18 anni. Visse in ristrettez­ze facendo il tipografo e il libraio. Componendo opere giuridiche esemplari, ispirate ai principi di autonomia e libertà, lui ardente federalist­a. Diede prova — come scrisse François Geny — di «un’energia morale indomabile», che ci obbliga a prendere sul serio un esemplare appunto di Altan. Una vignetta del 1996 raffigura un intellettu­ale, il quale formula a sé stesso un auspicio: «Auguro a questo governo di durare a lungo, così ho il tempo di rivoltare gabbana senza dare nell’occhio». Nulla contro la retorica dell’antifascis­mo, che rimane — per il momento ed è da augurarsi per sempre — retorica.

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